Benvenuto nel Blog della LES

Ciao, sono il papà di una ragazza alla quale, nel 2002, è stata diagnosticato il Lupus Eritematoso Sistemico (LES). Con questo blog spero di potere aiutare qualcuno che sta attraversando questa brutta esperienza cercando di supportarlo, per quanto mi è possibile, a superare le difficoltà quotidiane e burocratiche che ho già dovuto affrontare io in passato. Un augurio di cuore a tutti. Se qualcuno vuole contattarmi direttamente può utilizzare l'indirizzo pepo1405@libero.it

Le informazioni fornite sono a scopo divulgativo e non intendono in alcun caso sostituire le indicazioni che possono essere ottenute direttamente da un medico che valuti il singolo caso. Inoltre le indicazioni relative a farmaci, procedure mediche o terapie in genere hanno un fine unicamente illustrativo e non possono sostituirsi alla prescrizione di un medico.

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lunedì 6 dicembre 2010

LE MANIFESTAZIONI OCULARI

È risaputo che gli occhi possono rappresentare un bersaglio del lupus. Questa possibilità, sebbene infrequente, non deve essere trascurata anche quando una vera e propria sintomatologia oculare risulta assente. Dall’esame oculistico è possibile ottenere utili indicazioni riguardanti il grado di attività della malattia e il tipo di terapia sistemica da instaurare. Inoltre non bisogna dimenticare che alcuni farmaci frequentemente somministrati nel lupus, ad esempio il cortisone, possono favorire l’insorgenza di alcune manifestazioni oculari. A questo proposito sottolineo sempre come esempio il caso della cataratta
da cortisone. Per capire come è fatto l’occhio si ricorre spesso al paragone con la “macchina fotografica”
che consta di un obiettivo (la cornea e il cristallino) e di una pellicola (la retina). Dall’occhio le immagini vengono trasmesse al cervello attraverso il nervo ottico, che può essere paragonato ad un cavo conduttore. È bene sapere che il lupus può coinvolgere tutte le principali strutture oculari: cornea, cristallino, retina e nervo ottico. Paragonando l’occhio ad una “macchina fotografica”, descriverò quali sono i sintomi e i disturbi che più frequentemente interessano “l’obiettivo” (cornea e cristallino) e la “pellicola” (retina e nervo ottico). I disturbi corneali derivano più frequentemente da alterazioni quali-quantitative della secrezione lacrimale. È noto infatti che nel lupus si può osservare talvolta una sindrome “sicca”. Questa è caratterizzata clinicamente dalla secchezza di varie mucose: congiuntiva, mucosa del cavo orale o vaginale. La secchezza oculare (chiamata xeroftalmia) è la conseguenza di un processo infiammatorio che coinvolge la ghiandola lacrimale. La carenza del liquido lacrimale determina la comparsa di piccole abrasioni sulla superficie esterna della
cornea. Tutto ciò può causare la comparsa dei seguenti sintomi:
• sensazione di corpo estraneo o “sabbia” negli occhi;
• bruciore ed arrossamento degli occhi;
• riscontro di filamenti di muco nel sacco congiuntivale e/o sulla superficie corneale;
• fotofobia (fastidio alla luce).
In questi casi è particolarmente indicato l’utilizzo di colliri a base di lacrime artificiali. Le lacrime artificiali, anche denominate “sostituti lacrimali”, dovranno essere instillate più volte al giorno ed in alcuni casi può essere indicato l’impiego di lacrime artificiali più dense e viscose (gel oculari). Nei casi in cui le abrasioni corneali sono più gravi sarà necessario somministrare colliri, applicare pomate oftalmiche contenenti antibiotici e bendare per qualche giorno l’occhio colpito. Il coinvolgimento del cristallino nel lupus è caratterizzato, quasi sempre, da modificazioni della sua trasparenza (cataratta) indotta dall’assunzione di cortisonici. Sono infatti ben note da molti anni le capacità “catarattogene” del cortisone. Secondo la mia esperienza il rischio di sviluppare la cataratta (tipicamente di tipo sotto-capsulare posteriore) è spesso direttamente proporzionale alla durata della terapia ed anche alla dose del cortisonico somministrato. Esiste tuttavia una certa suscettibilità individuale che espone alcuni pazienti ad un rischio maggiore di cataratta rispetto ad altri. Le ragioni di tale suscettibilità individuale restano ancora tutte da chiarire. Il sintomo principale relativo alla comparsa della cataratta è la progressiva e lenta riduzione della vista. La cataratta da cortisone non deve tuttavia spaventare i pazienti poiché è sempre possibile, attraverso l’intervento chirurgico, risolvere facilmente il problema. Più raramente la cataratta nel lupus può essere la conseguenza di un’infiammazione dell’uvea (uveite), in particolare dell’iride e dei corpi ciliari (cataratta complicata). L’uveite, soprattutto se cronica e mal curata, può favorire l’insorgenza della cataratta. I sintomi dell’uveite acuta sono:
• dolore ed occhio arrossato;
• fotofobia;
• modesta riduzione della vista.
La terapia si avvale di colliri a base di cortisonici e dilatatori della pupilla (chiamati midriatici, come ad esempio l’atropina). Possono essere utilizzati anche farmaci immunosoppressori che vengono somministrati per via orale. Fortunatamente l’uveite rappresenta una manifestazione oculare piuttosto rara nel lupus. Senza dubbio il coinvolgimento della retina e del nervo ottico nel lupus rappresentano i quadri più gravi di coinvolgimento oculare in ragione del fatto che i tessuti nervosi di cui sono fatti, una volta danneggiati, difficilmente possono essere recuperati da un punto di vista funzionale. La retinopatia nel lupus non è frequente. Il riscontro di una retinopatia, in particolare della variante “classica”, rappresenta spesso un indice di aumentata attività del lupus. Infatti, generalmente la si osserva più frequentemente nei pazienti con un lupus in fase acuta. Invece nei pazienti con un lupus in fase quiescente, questa retinopatia è molto più rara. I sintomi relativi alle lesioni retiniche sono una improvvisa riduzione ed appannamento della vista ed una distorsione delle immagini. Talvolta però la retinopatia può essere asintomatica. Per quanto riguarda la variante “classica” della retinopatia, la terapia si avvale di farmaci immunosoppressori come il cortisone, la ciclofosfamide o l’azatioprina. La variante “antifosfolipidica” può richiedere invece interventi parachirurgici (trattamenti con laser) e/o la somministrazione, per via orale, di farmaci anticoagulanti. In particolare il laser effettuato sulle aree ischemiche della retina (ischemia significa che esiste un insufficiente afflusso di sangue e quindi di ossigeno), in regime assolutamente ambulatoriale, potrà evitare gravi complicanze oculari quali l’emovitreo (un’emorragia che avviene all’interno dell’occhio), il glaucoma neovascolare (un grave aumento
della pressione intraoculare) e il distacco di retina trazionale. Il nervo ottico nel lupus è colpito attraverso meccanismi fisiopatogenetici che, allo stato attuale, restano ancora da definire. Il nervo ottico può essere interessato da processi sia infiammatori che di tipo ischemico. La “neuropatia ottica retrobulbare” rappresenta l’affezione del nervo ottico più frequente. La sintomatologia della neuropatia ottica è caratterizzata da una improvvisa riduzione della vista, possibile dolore evocato dal movimento del globo oculare, marcata riduzione o assenza del riflesso pupillare diretto (incapacità della pupilla di “restringersi”
alla luce), perdita del campo visivo. La terapia della neuropatia ottica si avvale dell’utilizzo di cortisone somministrato per via endovenosa ad alti dosaggi. Talvolta il coinvolgimento del nervo ottico si manifesta nell’ambito di un quadro clinico neurologico più importante (Neuro-LES); ovvero la neuropatia ottica può osservarsi in associazione ad altre manifestazioni neurologiche. Nel 50% dei casi circa si associa ad un coinvolgimento del midollo spinale (mielopatia trasversa). Proprio per questo motivo tutti i pazienti con lupus e neuropatia ottica dovrebbero essere sottoposti a visita neurologica. Sebbene nel lupus il coinvolgimento degli occhi non sia frequente, si ritiene che una visita oculistica possa talvolta fornire utili indicazioni allo specialista reumatologo. Come regola generale, un intervento tempestivo e precoce in corso di LES può evitare la comparsa di ben più gravi manifestazioni, anche in campo oftalmologico.

ANSIA E DEPRESSIONE NEL LUPUS

L’ansia e la depressione sono sintomi comuni nella vita di tutti noi e non sempre sono da ritenersi patologici. Essere in ansia per un evento nuovo, che richiede la mobilizzazione di tutte le nostre energie emotive e psicofisiche ed il cui esito è incerto, come ad esempio un matrimonio, la nascita di un figlio, un esame o un colloquio di lavoro, un intervento chirurgico, è da ritenersi normale. Così com’è normale sentirsi depressi quando le cose non vanno come noi vorremmo, quando siamo delusi dal comportamento di qualcuno o da noi stessi, perché abbiamo commesso qualche errore o pensiamo di non esserci impegnati abbastanza nel fare qualcosa, o, peggio, quando perdiamo una persona cara. Abbiamo detto che l’ansia non è di per sé un fenomeno patologico. Anzi, si può dire che essa nasce con l’essere umano e lo accompagna per tutto l’arco della vita, come una sorta di “amica” da tenere sotto controllo. L’ansia costituisce una componente della normale reazione emozionale dell’essere umano di fronte alle più svariate situazioni della vita e può anche
rappresentare uno stimolo all’ attività, alla creatività o alla competizione. È definibile come “una manifestazione emotiva fisiologica messa in atto da ciascun individuo allo scopo di proteggersi da tutto ciò che minaccia la sua esistenza e la sua integrità fisica e psichica”. L’ansia diviene patologica quando diventa particolarmente intensa, frequente e di lunga durata, quando provoca una marcata sofferenza soggettiva e quando compromette le normali attività psicosociali del soggetto, minacciando le sue capacità relazionali e lavorative. L’ansia può inoltre manifestarsi come un attacco di panico, agorafobia e fobia sociale. Vediamo qui di seguito di cosa si tratta. L’attacco di panico si presenta come un sentimento improvviso di intensa paura o disagio, accompagnato da almeno quattro dei seguenti sintomi fisici e/o psichici: aumento della
frequenza cardiaca, sudorazione, tremori, difficoltà respiratorie o sensazione di soffocamento o di asfissia, dolore al petto, nausea, sensazioni di sbandamento o di svenimento, sensazione di essere distaccati dalla realtà o da se stessi, paura di impazzire o di morire, sensazioni di formicolio, brividi o vampate di calore.
L’agorafobia può presentarsi da sola o accompagnare un disturbo da attacchi di panico. È un sentimento di intensa ansia vissuto da una persona quando si trova in un luogo affollato o dal quale potrebbe essere difficile o imbarazzante allontanarsi, luogo che potrebbe essere una chiesa, un supermercato o un cinema.
La fobia sociale è un disturbo spesso presente nei pazienti con LES, da solo o più frequentemente associato al disturbo di panico. I malati di LES che hanno manifestazioni cutanee, ad esempio, possono sentire disagio nella relazione con gli altri, dei quali temono il giudizio. La situazione sociale temuta è solitamente il dover parlare, scrivere o mangiare in pubblico ed è quindi evitata o sopportata con estrema ansia. La depressione è una diminuzione del tono dell’umore: l’affettività diviene piatta e grigia, la persona perde la normale spinta vitale e quindi perde la voglia di fare e di stare con gli altri. I sintomi con cui si presenta sono svariati e generalmente sono peggiori al mattino. L’umore solitamente è depresso, ma talvolta può essere elevato, espanso o irritabile. Vi è perdita di interesse o piacere per quelle attività alle quali prima di ammalarsi il soggetto era solito dedicarsi. Vi possono essere perdita o aumento di peso, diminuzione o perdita dell’appetito. Spesso vi è insonnia, talvolta ipersonnia (aumento del sonno). Il desiderio sessuale è diminuito o assente. È presente agitazione psicomotoria o più spesso rallentamento: la persona si muove con lentezza, parla con un filo di voce monotona appena udibile, talvolta rimane immobile per ore senza parlare affatto. L’energia vitale è diminuita o assente, mentre i sentimenti sono di autosvalutazione, di colpa o di rovina. Spesso il soggetto lamenta una dolorosa perdita di contatto affettivo con le persone amate. Vi sono una
ridotta capacità di pensare e di concentrarsi. Le decisioni divengono difficili da prendere e procrastinate, anche quelle riguardanti l’ordinaria routine quotidiana. Una persona affetta da grave depressione è a rischio per comportamenti autodistruttivi. Il rischio maggiore è il suicidio. Un altro rischio è l’alcolismo. L’alcool può inizialmente dare la sensazione alla persona depressa di sentirsi un po’ meglio, ma con il passare del tempo
aggrava la sua situazione creando una forma di dipendenza molto difficile da superare, che può comportare complicazioni anche molto gravi. Nel LES ansia e depressione sono sintomi frequenti e troppo spesso sottovalutati o non riconosciuti. L’ansia è spesso determinata dalla incertezza nei confronti del futuro che la malattia può comportare: saranno necessari dei cambiamenti nel lavoro, nell’organizzazione della vita quotidiana o del tempo libero. Non ci si potrà più esporre al sole nelle ore più calde, come magari si faceva prima. Saranno necessarie più ore di riposo. Riconoscere di dovere accettare dei limiti, di essere più vulnerabili comporta la perdita della precedente immagine di sé con una conseguente diminuzione dell’autostima. Tutto questo deprime. La depressione è infatti più frequente subito dopo la notizia della diagnosi di LES: la si vorrebbe negare. La negazione, tuttavia, non è una modalità difensiva utile. Negare di avere un problema significa non mettere in atto tutte le strategie più utili per affrontarlo e superarlo.
Spesso si tratta di sintomi transitori, risolvibili talvolta nell’arco di pochi colloqui psichiatrici chiarificatori, ma che se non riconosciuti possono essere inutilmente trascinati nel tempo e comportare complicazioni: perdita del lavoro, ritiro sociale, etilismo, condotte parasuicidarie, eccetera. Lo specialista che cura l’ansia e la depressione è il medico psichiatra. Spesso infatti l’ansia o la depressione si manifestano con sintomi fisici, che possono essere anche molto fastidiosi e debilitanti. Sarà quindi importante, almeno nelle fasi iniziali, “aggredire” questi sintomi con dei farmaci, i quali potranno essere prescritti in modo mirato e preciso
solo da uno psichiatra. Purtroppo ancora oggi, lo psichiatra viene confuso con “il medico dei pazzi” e può sembrare squalificante per una persona rivolgersi ad una tale figura di medico. La figura dello psichiatra manicomiale, se mai è esistita, non esiste più e soprattutto l’ansia e la depressione sono “malattie” che possono colpire chiunque, anche le persone più “sane”, equilibrate e “normali”, comprese quelle più socialmente integrate. In alcuni casi può essere utile affiancare alla terapia psicofarmacologica una psicoterapia: gli psichiatri conoscono bene le indicazioni e le eventuali controindicazioni delle
psicoterapie e saranno gli specialisti più adatti ad indirizzare o meno in tal senso il paziente. Talvolta l’incontro con lo psichiatra, nel contesto di una relazione di fiducia basata sullo scambio di parole, può essere risolutivo e chiarificatore e non sempre sono necessari un intervento farmacologico o una psicoterapia in senso stretto. Pochi incontri con uno psichiatra talvolta sono sufficienti per chiarire un dubbio o superare una paura.

IL COINVOLGIMENTO DEL SISTEMA NERVOSO

Nel lupus le manifestazioni neurologiche sono piuttosto frequenti specialmente se si considerano le situazioni meno gravi che, per fortuna, sono la maggioranza. Rispetto alle stime di alcuni anni fa, che riportavano frequenze di interessamento neurologico anche nel 70 % dei casi, in anni più recenti questo dato è stato alquanto ridimensionato; alcune tra le maggiori casistiche internazionali riportano infatti frequenze che si aggirano attorno al 20-25 % dei casi. Questa differenza nelle percentuali si può spiegare grazie ad una migliore conoscenza del problema e ad un maggior rigore nella diagnosi di coinvolgimento neurologico che, è bene saperlo, può precedere anche di parecchi anni l’esordio della malattia o presentarsi in qualunque momento durante il suo decorso. Il coinvolgimento può essere sia a livello di sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale) che a livello di sistema nervoso periferico (nervi che portano gli stimoli ai muscoli e che raccolgono la sensibilità della pelle). Alle volte l’interessamento neurologico si manifesta con sintomi di tipo psichiatrico, come psicosi e depressione, ed è per questo che attualmente viene usato il termine di “lupus neuropsichiatrico” che ben raggruppa tutto lo spettro delle possibili manifestazioni. A volte, infatti, i pazienti si presentano con un misto di manifestazioni neurologiche e psichiatriche. Va ricordato che l’interessamento del sistema nervoso nel lupus può essere provocato direttamente dagli stessi fattori che causano la malattia e che agiscono anche sul sistema nervoso ma anche causato da altri fattoricome:
a) l’interessamento lupico di altri organi o apparati che a sua volta può provocare sintomi neurologici;
b) complicanze della malattia, come per esempio le infezioni;
c) effetti collaterali della terapia;
d) altre cause come ad esempio l’ipertensione, l’arteriosclerosi, il diabete.
Per quanto riguarda gli effetti neurologici di alcuni farmaci va ricordato che gli stessi corticosteroidi (se assunti a dosi medio-alte) possono causare ansia, alterazioni dell’umore, depressione o disturbi di personalità; in tal caso, ovviamente, non si parla di neuro-lupus ma di effetti collaterali neurologici secondari alla terapia. Innanzitutto non bisogna confondere il coinvolgimento neurologico secondario al lupus con la reazione emozionale tipica dei paziente affetti da una malattia cronica. Perdita di autostima, stato d’ansia, sensazione di isolamento, depressione, senso di inadeguatezza e di incapacità di assumersi impegni, irritabilità, insonnia, facilità al pianto o difficoltà di concentrazione sono comunemente descritti da molti pazienti affetti da lupus e non vanno sempre e necessariamente interpretate come manifestazioni neurologiche d’organo. Data la complessità del sistema nervoso i sintomi possono essere i più disparati e
riguardare le funzioni di moto e/o di senso, la sfera psico-emotiva, la memoria, ecc. È importante sapere che la loro gravità è molto varia trattandosi in una buona parte di disturbi di modesta entità.
Tra i più frequenti ricordiamo :
- la cefalea (mal di testa), che è in assoluto tra le manifestazioni più frequenti; è lecito collegarla al lupus soprattutto quando è di recente insorgenza, gravativa (opprimente, persistente), resistente alle comuni terapie analgesiche. Spesso migliora col cortisone.
- i disturbi cognitivi: termine con il quale ci si riferisce a difficoltà nella concentrazione, riduzione dell’ attenzione e/ o perdita d i memoria (specialmente quella per avvenimenti recenti) che sono manifestazioni alquanto frequenti nei pazienti affetti da LES.
- le crisi epilettiche: sono abbastanza frequenti e possono essere di varia gravità; talora si verificano crisi generalizzate che interessano tutto il corpo, altre volte le crisi sono parziali interessando un solo arto (con scosse o tremori), altre volte si manifestano come brevi episodi di assenza temporanea (brevi sospensioni della coscienza) che non sempre sono facili da riconoscere e da collegare alla malattia a meno che questa non sia già nota. Le crisi epilettiche sono più spesso osservate nei pazienti che hanno nel loro siero una concentrazione elevata di anticorpi anti-fosfolipidi.
- gli accidenti cerebro-vascolari : più spesso sono di natura ischemica (chiusura di un vaso); sono tra le manifestazioni più severe (nel complesso, fortunatamente abbastanza rare) potendo dar luogo a quadri di ictus che si manifestano con un’emiparesi (paralisi di metà corpo) o, in altri casi, ad episodi di paresi transitoria (debolezza o intorpidimento di una arto, del volto o di una metà del corpo, confusione o mal di testa intenso) che si risolvono nell’arco di alcune ore. In tal caso vengono definiti attacchi ischemici transitori (TIA). Frequentemente gli eventi ischemici cerebrali si associano alla positività degli anticorpi anti-fosfolipidi e/o anticoagulante lupico che, come è noto, predispongono allo sviluppo di fenomeni trombotici.
In altri casi le manifestazioni neurologiche assumono prevalentemente connotati di tipo psichiatrico: depressione, ansia, irritabilità. Questi disturbi, tranne nei casi più gravi ed eclatanti come è il caso dei disturbi di tipo psicotico, possono essere facilmente confusi con un normale stato emozionale reattivo alla malattia di base e solo la collaborazione con lo specialista neurologo e/o psichiatra consente di inquadrarli correttamente. Non ci sono esami d i laboratorio indicativi di un coinvolgimento neurologico ad eccezione
della determinazione degli anticorpi anti-neurone che vengono però effettuati solo in centri altamente specializzati. Un discorso a parte merita invece quella parte di pazienti affetti dal lupus con positività per gli anticorpi anti-fosfolip id i o p er il Lupus Anticoagulant (LAC). Tali anticorpi infatti predispongono all’insorgenza di eventi trombotici arteriosi e venosi che possono verificarsi anche a livello cerebrale causando manifestazioni cliniche non più di tipo infiammatorio, ma di tipo vascolare quali attacchi ischemici transitori,corea (movimenti involontari) o emorragie subaracnoidee. Il sospetto di un lupus neuropsichiatrico all’esordio o il monitoraggio di manifestazioni neurologiche già preesistenti pone sempre l’indicazione all’esecuzione di alcune indagini strumentali fra cui la Risonanza Magnetica dell’encefalo, la SPECT cerebrale (una specie di scintigrafia), l’elettroencefalogramma e l’elettromiografia. La TAC serve solo in rari
casi per escludere problemi urgenti quali ad esempio un’emorragia cerebrale o il sospetto di un tumore.
Sono attualmente in corso numerose ricerche volte a migliorare la resa delle metodiche di indagine neurologica, soprattutto sotto il profilo funzionale, che sicuramente contribuiranno a migliorare le conoscenze sui meccanismi del danno neurologico e, con ogni probabilità, offriranno nuovi spunti terapeutici. Per la complessità delle problematiche connesse all’interessamento del sistema nervoso è di fondamentale importanza la collaborazione tra il Reumatologo ed altri specialisti come il Neurologo e, quando necessario, lo Psichiatra, mentre per i disturbi che attengono alla sfera cognitiva il colloquio con il Neuropsicologo e la valutazione mediante alcuni test mirati consente di inquadrare correttamente e valutare l’entità dei disturbi riferiti e lamentati dai pazienti. Le terapie a disposizione sono molte, sia farmacologiche che di altra natura. È estremamente utile un supporto psicologico iniziale volto a superare il disagio psicosociale provocato dalla malattia. Tale supporto, che può essere utilmente realizzato anche tra gli stessi pazienti riuniti in piccoli gruppi, deve aiutare gli ammalati a conoscere ed accettare la malattia superando in tal modo tutti gli stati d’animo reattivi ad essa. I presidi farmacologici prevedono l’utilizzo di farmaci che contrastano il coinvolgimento infiammatorio o ischemico di un organo vitale come il sistema nervoso centrale. In tal senso risultano utili, almeno in fase iniziale, dosaggi medio-alti di corticosteroidi utilizzati per bocca o anche per via endovenosa (in boli) associati o meno a farmaci immunosoppressori quali la ciclofosfamide. Ovviamente l’utilizzo di tali terapie, non prive di effetti collaterali, deve sempre tener conto di un adeguato rapporto rischio-beneficio. Le manifestazioni di tipo psichiatrico potranno trarre giovamento anche dall’utilizzo di
farmaci antidepressivi o antipsicotici mentre i farmaci antiepilettici saranno di scelta per le crisi convulsive.
Sintomi neurologici dovuti ad un coinvolgimento del distretto vascolare secondario ad uno stato di aumentata coagulazione del sangue (dovuta agli anticorpi anti-fosfolipidi) vengono trattati con terapie antiaggreganti o anticoagulanti con buone possibilità di recupero di funzioni (quali memoria o eloquio) considerate in certi casi, a torto, definitivamente compromesse.

venerdì 5 novembre 2010

LE MANIFESTAZIONI CARDIACHE

Il cuore è costituito da tre tipi di tessuti: il pericardio, il miocardio e l’endocardio. Il pericardio rappresenta una specie di sacco che avvolge il cuore. Esso è formato da due foglietti. Tra i due foglietti in condizioni normali vi è uno spazio piccolissimo: in caso di infiammazione del pericardio (pericardite) in questa cavità può accumularsi del liquido provocandone una dilatazione. Il miocardio è il vero e proprio muscolo cardiaco in grado di pompare il sangue, permettendone quindi l’afflusso in tutto il corpo. Infine, l’endocardio costituisce il rivestimento interno del cuore sul quale si impiantano le valvole cardiache. Dal punto di vista funzionale il cuore è diviso in due parti, la destra e la sinistra, e ciascuna di queste è costituita da un atrio e da un ventricolo. Ogni sistema atrio-ventricolo porta il sangue al proprio sistema circolatorio; ne esistono due: il piccolo circolo o circolo polmonare ed il grande circolo o circolo periferico. Tramite il primo il sangue va ai polmoni per ricevere ossigeno, mentre tramite il secondo il sangue ossigenato va a tutto il corpo. Più precisamente, nell’atrio destro si raccoglie il sangue non ossigenato proveniente da tutti i tessuti; esso passa dall’atrio al rispettivo ventricolo attraverso una valvola. Dal ventricolo destro il sangue viene poi, nella fase di contrazione cardiaca, spinto nella piccola circolazione attraverso un’altra valvola in direzione dei polmoni per essere ossigenato. All’atrio sinistro arriva il sangue ossigenato dai polmoni che passa al ventricolo sinistro attraverso una valvola e da qui, passando attraverso un’altra valvola ancora, il sangue viene spinto nel grande circolo per irrorare organi e muscoli. Poiché il cuore è un muscolo, anch’esso ha bisogno di ossigeno e nutrimento che riceve dalle arterie coronarie. Per far contrarre e poi rilasciare il cuore è necessario uno stimolo nervoso che lo attraversi in tutta la sua struttura: tale impulso viene condotto da un insieme di fasci nervosi. Per controllare la funzionalità cardiaca si ricorre normalmente all’elettrocardiogramma (ECG).
Molte malattie reumatiche, in particolare le connettiviti, possono coinvolgere il cuore. Il LES, in particolare, può colpire ogni sua parte; ciò avviene in circa i 2/3 dei casi, ma fortunatamente molto spesso in forma tanto lieve da non essere soggettivamente rilevabile. Come accade negli altri organi il LES a livello cardiaco si manifesta con una tipica infiammazione che può coinvolgerne tutte le componenti: il pericardio, il miocardio, le valvole e l’endocardio, il sistema di conduzione, le arterie coronarie. L’infiammazione del pericardio, del miocardio e dell’endocardio vengono denominate rispettivamente: pericardite, miocardite ed endocardite.
La pericardite è la manifestazione di gran lunga più frequente. Generalmente si presenta con un dolore retrosternale pulsante, che si può accentuare con la respirazione ed i colpi di tosse, con la deglutizione o con i movimenti di torsione e di flessione del torace. Talvolta la pericardite è di modesta entità, tanto da essere asintomatica e rilevata solamente con l’ausilio di indagini strumentali come l’ecocardiogramma. Nella maggioranza dei casi la pericardite risponde bene al trattamento con FANS e/o cortisonici e solo in una piccola percentuale di casi può ripresentarsi. Quando il processo infiammatorio interessa le fibre muscolari del cuore si ha la miocardite, che è presente in una minoranza di pazienti. Il sintomo con cui si manifesta è
determinato dalla variazione (in genere l’aumento) della frequenza cardiaca, ben documentabile con l’elettrocardiogramma. La radiografia del torace può confermare una diagnosi di miocardite evidenziando un aumento del volume del cuore. L’indagine ecocardiografica conferma l’aumento di volume del cuore e la sua ridotta capacità di contrazione del ventricolo sinistro. Vista la gravità del quadro la miocardite deve essere
trattata con una terapia energica, con alte dosi di cortisone e con immunosoppressori. L’endocardite, ossia l’infiammazione dell’endocardio, rappresenta il quadro più caratteristico di interessamento cardiaco in corso di LES; tale impegno è raro e quando è presente non sempre provoca dei disturbi. Generalmente è responsabile di alterazioni della morfologia e, più raramente, della funzionalità delle valvole cardiache, che spesso sono ricoperte da delle vere e proprie vegetazioni di tessuto infiammatorio. In questi casi, con
l’ecografia è possibile vedere una irregolarità sulla superficie valvolare. Negli ultimi anni, grazie all’ecocardiografia, tali anormalità valvolari possono essere dimostrate in un elevato numero di pazienti.
Nel LES, al pari di ogni altra piccola arteria le coronarie possono essere interessate da una infiammazione della parete. Ciò determina il restringimento del loro diametro con una conseguente difficoltà al flusso del sangue e una ridotta ossigenazione dei tessuti irrorati. L’assunzione di cortisonici a lungo termine comporta ritenzione idrica, aumento della glicemia (ridotta tolleranza agli zuccheri), della concentrazione dei grassi e della pressione arteriosa, cui può seguire una maggiore frequenza di fenomeni aterosclerotici quali l’ingrossamento della parete dell’arteria associato alla formazione di placche (“ateromi”) che vanno a restringere ulteriormente il diametro del vaso. Nonostante tali effetti collaterali, il cortisone resta un farmaco indispensabile per il controllo dei processi infiammatori. Pertanto va utilizzato al dosaggio minimo efficace, eventualmente associando altri farmaci che ne consentano un “risparmio” (cioè l’assunzione di una dose più bassa possibile) come gli antimalarici e gli immunosoppressori. Va segnalato che gli antimalarici riducono
la concentrazione di grassi nel sangue e sono in grado di controbilanciare l’aumento di queste sostanze determinato dal cortisone. Quando si dovesse presentare la sintomatologia della cardiopatia lupica è necessario intraprendere la terapia a base di corticosteroidi, il cui dosaggio va adeguato a seconda del
tipo di struttura cardiaca che viene coinvolta; successivamente la dose va ridotta fino a raggiungere quella minima efficace a controllare i disturbi e a mantenere spenta l’infiammazione. Se così facendo dovessero comparire effetti collaterali, non sarà giustificata la sospensione della terapia, ma bisognerà cercare di ridurre la dose introducendo altri farmaci utili nel controllare le manifestazioni indesiderate, come gli immunosoppressori. Le abitudini di vita del paziente rivestono un ruolo importante: si dovrà seguire un’alimentazione equilibrata, praticare un’adeguata attività fisica ed evitare le gravi condizioni di stress.
L’impegno cardiaco in corso di LES è certamente un evento importante, ma fortunatamente si manifesta in maniera severa solo raramente. Più spesso si tratta di alterazioni talmente lievi da non determinare alcun disturbo. Queste situazioni di sofferenza latente possono manifestarsi in tutta la loro gravità, in genere, quando alla malattia di base si associano complicazioni quali infezioni, diabete grave o ipertensione arteriosa. Proprio perché spesso nascoste, le alterazioni cardiache vanno comunque ricercate in ogni malato di LES. Le indagini di base sono semplici e facilmente praticabili; esse consistono in un elettrocardiogramma, un ecocardiogramma e una radiografia del torace.

venerdì 17 settembre 2010

INTERESSAMENTO POLMONARE

Il polmone rappresenta l’organo della respirazione nei vertebrati terrestri. È costituito da canali di diametro sempre minore (trachea, bronchi, bronchioli) che servono per convogliare l’aria agli alveoli, dilatazioni a forma di piccolo sacchetto delle pareti dei bronchioli più piccoli. L’aria entra nei polmoni con gli atti della respirazione per effetto di alcuni muscoli, diaframma e muscoli intercostali, chiamati appunto muscoli respiratori. Le strutture interposte tra polmoni e parete toracica sono i foglietti pleurici e la cavità pleurica. Il foglietto pleurico viscerale avvolge completamente il polmone, mentre quello parietale tappezza dall’interno la cavità toracica che accoglie l’organo della respirazione. Tra i due foglietti vi è uno spazio virtuale, la cavità pleurica, in cui è contenuta una pellicola sottile di liquido che assicura lo scorrimento dei due foglietti durante i movimenti di espansione e retrazione polmonare che avvengono per effetto dei movimenti respiratori. A livello degli alveoli avviene lo scambio di gas (ossigeno e anidride carbonica) tra aria e sangue, per il fenomeno fisico della diffusione dei gas. L’ossigeno, più concentrato nell’aria che nel sangue, tende a passare dalla prima al secondo. Nel sangue, l’ossigeno si fissa all’emoglobina, contenuta nei globuli rossi e viene trasportato ai tessuti. Al contrario, l’anidride carbonica è più concentrata nel sangue e meno negli alveoli e pertanto passa da quello nella cavità alveolare da cui viene espulsa con l’espirazione. I polmoni sono irrorati da moltissimo sangue. Per la respirazione sono importanti l’arteria e la vena polmonare che costituiscono il piccolo circolo. L’arteria polmonare porta agli alveoli il sangue povero di ossigeno e ricco di anidride carbonica, la vena polmonare porta invece il sangue ricco di ossigeno ai tessuti. Nel circolo

polmonare, contrariamente a quanto avviene nella grande circolazione, il sangue delle arterie è povero di ossigeno e quello della vene ne è ricco. Come già spiegato in precedenza, virtualmente ogni organo o apparato può essere coinvolto dal LES e l’apparato respiratorio non fa eccezione. Il polmone infatti può essere coinvolto direttamente dalla malattia oppure essere interessato dalle complicanze infettive, legate alla compromissione della risposta immunitaria che si verifica per l’utilizzo di terapie immunosoppressive, a base di corticosteroidi e/o farmaci citostatici. I risultati di un recente studio epidemiologico condotto dal nostro gruppo di ricerca, indicano che nel LES le complicanze infettive sono la causa più frequente di morte. Tra queste le infezioni polmonari rappresentano la percentuale maggiore. Va tuttavia sottolineato che la terapia

con immunosoppressori ha migliorato notevolmente la prognosi del LES, tanto che l’aspettativa di vita dei pazienti affetti da questa malattia è oggi simile a quella della popolazione generale. Nel complesso, l’interessamento pleuro-polmonare si verifica abbastanza spesso nel LES. Secondo la nostra esperienza, la pleurite si manifesta nel 36% dei casi, mentre il coinvolgimento del polmone è più raro, essendo riscontrabile solo nel 7% dei casi. In una percentuale maggiore di pazienti si può presentare una sintomatologia caratterizzata da dolore toracico intenso, che si accentua con gli atti del respiro (dolore pleuritico), senza formazione di liquido nel cavo pleurico, verosimilmente legata ad un’infiammazione pleurica di intensità lieve e non sufficiente a produrre versamento. Tra i quadri clinici ricordiamo, oltre alla già citata pleurite, la polmonite lupica acuta, la polmonite interstiziale cronica, l’emorragia polmonare, l’ipertensione polmonare, l’embolia polmonare La pleurite è la manifestazione più frequente dell’impegno dell’apparato respiratorio

in corso di LES; si manifesta con dolore toracico, che si accentua con gli atti del respiro, spesso associato a febbre, tosse secca e dispnea (difficoltà di respiro o “respiro corto”). Il versamento pleurico (formazione di liquido tra i foglietti che ricoprono i polmoni), quando presente, è in genere di modesta entità e può associarsi al coinvolgimento del pericardio (pericardite: infiammazione con versamento dei foglietti che avvolgono il cuore). La diagnosi si basa sul quadro clinico e sulla radiografia del torace. Raramente è necessario ricorrere alla toracentesi (aspirazione percutanea di liquido pleurico), allo scopo di escludere

altre patologie, quali infezioni o tumori. La prognosi è generalmente buona, e nella maggior parte dei casi la pleurite risponde a dosi medio-basse di cortisone e agli antinfiammatori non steroidei. La polmonite lupica acuta è una manifestazione grave, fortunatamente di raro riscontro,caratterizzata da tosse, febbre, dispnea, emissione di sangue con i colpi di tosse. Anche in questo caso, la diagnosi si basa sulla radiografia del torace. Va tuttavia sempre tenuto in debita considerazione che anche i processi polmonari infettivi, peraltro

molto più frequenti della polmonite lupica, possono dare alla radiografia un quadro del tutto simile. La prognosi della polmonite lupica acuta non è buona, e sono spesso necessarie terapie energiche, come i boli di cortisone o l’utilizzo di immunosoppressori. La polmonite interstiziale cronica spesso esordisce insidiosamente, con una dispnea progressiva e comparsa di tosse secca. In questo caso l’interstizio polmonare viene coinvolto da un processo infiammatorio che tende ad evolvere in fibrosi. La diagnosi si basa sul riscontro di caratteristici crepitii all’auscultazione del polmone e sui reperti rilevabili alla radiografia del torace. Nel sospetto di un’interstiziopatia polmonare vanno anche eseguite le prove spirometriche e la Tomografia Assiale Computerizzata (TAC) del polmone ad alta risoluzione. Le prime vanno completate con il test di diffusione del monossido di carbonio (CO) e danno utili informazioni anche sull’entità della compromissione della funzione respiratoria. La TAC ad alta risoluzione è invece fondamentale per distinguere i quadri polmonari in cui prevalgono gli aspetti flogistici, sensibili alla terapia, da quelli dove invece vi è una prevalenza di fibrosi, quest’ultima scarsamente sensibile alla terapia medica. Può essere utile eseguire anche la scintigrafia polmonare con gallio e la broncoscopia con esecuzione del lavaggio broncoalveolare. Quest’ultima manovra, molto meglio tollerata di quanto possa sembrare, prevede, sotto guida broncoscopica, l’immissione negli alveoli e la successiva raccolta di un liquido su cui possono essere eseguite numerose indagini: la conta delle cellule infiammatorie, la ricerca di batteri, virus, etc. La prognosi della polmonite interstiziale dipende dall’entità della fibrosi, essendo questa molto meno sensibile alla terapia rispetto alle forme con prevalente componente infiammatoria che invece rispondono bene al trattamento con cortisone ad alte dosi e con immunosoppressori. L’emorragia polmonare è un’evenienza di raro riscontro (inferiore all’1% dei casi). I sintomi sono febbre, tosse, dispnea ed emissione di sangue (emottisi) con l’escreato (catarro). Ci può essere una rapida evoluzione verso un’insufficienza respiratoria grave chiamata

sindrome da distress respiratorio acuto. La diagnosi si basa sulla radiografia del torace e sul rapido sviluppo di una grave anemia (dovuta alla perdita di sangue dai polmoni); può essere utile eseguire una TAC del polmone. Va poi eseguita la broncoscopia con lavaggio broncoalveolare, specialmente per distinguere questo quadro clinico dalle infezioni. La prognosi è severa, nonostante il trattamento con cortisone ad alte dosi o in bolo e con farmaci citostatici. Recentemente è stato proposto l’impiego della plasmaferesi in associazione alla terapia standard. L’ipertensione polmonare grave è di raro riscontro nel LES, essendo più frequentemente di grado lieve. Si associa spesso alla positività degli anticorpi anti-nRNP ed al fenomeno

di Raynaud. Può essere primitiva o secondaria ad una polmonite interstiziale cronica. Decorre molto spesso senza dare alcun disturbo per lunghi periodi. Quando si manifesta, i sintomi più comuni sono dispnea, tosse ed astenia. Importanti per la diagnosi sono la radiografia del torace, le prove spirometriche con il test di diffusione del monossido di carbonio (che si altera precocemente), l’ecocardiografia color-Doppler che consente una misura indiretta della pressione nell’arteria polmonare. L’ipertensione polmonare determina

la sofferenza della parte destra del cuore che si dilata e, alla fine, non riesce più a pompare il sangue come dovrebbe. Nelle ipertensioni polmonari la prognosi non è sempre buona anche se recentemente è

stata introdotta una nuova terapia che sembra essere molto efficace; nei casi più gravi, una prospettiva terapeutica potrebbe essere rappresentata dal trapianto polmonare. L’embolia polmonare si manifesta quando piccoli emboli (materiale ematico, coagulato, di dimensioni spesso microscopiche) si staccano dai trombi, che nella maggior parte dei casi si formano dalla coagulazione del sangue nelle vene degli arti inferiori, e arrivano, attraversando il cuore (atrio e ventricolo destro), al circolo polmonare dove si fermano impedendo il passaggio del sangue nei piccoli vasi. In rapporto alla grandezza ed al numero degli emboli la sintomatologia può essere acuta con dolore toracico localizzato in un punto preciso, febbre e mancanza improvvisa di respiro (dispnea improvvisa), oppure subdola con dolore toracico più diffuso e lieve mancanza di respiro. L’embolia polmonare, a lungo andare, se non viene curata adeguatamente, può portare

all’ipertensione polmonare. Spesso l’embolia polmonare si manifesta nei malati con positività per gli anticorpi

antifosfolipidi, che si associano appunto a trombosi venose e/o ateriose e quindi anche a tromboembolia.

La radiografia del torace è senza dubbio l’esame più importante, oltreché di semplice e rapida esecuzione. A seconda dei sintomi clinici, e quindi dell’ipotesi diagnostica, sarà necessario valutare l’esecuzione di altre indagini supplementari, quali le prove di funzionalità respiratoria, la TAC del torace, la TAC del torace ad alta risoluzione, la scintigrafia con gallio, la broncoscopia con il lavaggio broncoalveolare. Raramente è necessario ricorrere alla biopsia polmonare, che può essere effettuata per via transbronchiale (durante la

broncoscopia) oppure utilizzando la videotoracoscopia (introduzione di una piccola sonda con una telecamera all’interno della parete toracica), metodica che consente di essere meno invasivi rispetto all’intervento tradizionale. I sintomi più importanti sono il dolore toracico, la tosse persistente e la dispnea. Il dolore toracico, specie se si accentua con gli atti del respiro, deve indurre al sospetto di pleurite. La tosse può essere presente sia nelle forme pleuritiche che in quelle polmonari, può essere secca o accompagnata da espettorato. In quest’ultimo caso è generalmente espressione di un processo infettivo broncopolmonare. La dispnea deve far pensare ad un coinvolgimento diffuso del polmone, come, per esempio nella pneumopatia interstiziale cronica. Molte delle manifestazioni citate sono l’espressione della malattia stessa. Nei casi di infezione, invece, i fattori di rischio sono rappresentati dalle terapie immunosoppressive, dal fumo di sigaretta, che inibisce l’importante meccanismo di prevenzione dato dall’azione delle ciglia dell’epitelio di rivestimento bronchiale, e dall’inquinamento atmosferico. Nelle forme dovute ad embolia polmonare, i fattori

di rischio sono, oltre agli anticorpi antifosfolipidi, l’immobilità e l’uso dei contraccettivi orali. In molti casi è impossibile una prevenzione primaria (evitare che l’evento si manifesti per la prima volta). La prevenzione secondaria (riconoscimento precoce del coinvolgimento pleuro-polmonare) è pertanto fondamentale. Questa si basa su un’attenta raccolta dei sintomi del malato, sulla visita accurata e sull’esecuzione, quando necessario, degli esami strumentali ricordati in precedenza, tra i quali quelli da eseguire per primi sono la

radiografia del torace e le prove spirometriche integrate dal test di diffusione del monossido di carbonio.

INTERESSAMENTO RENALE

L’interessamento renale è molto frequente in corso di LES e lo si osserva nel 50% circa dei casi. Si può manifestare all’inizio o in qualsiasi momento nel corso della malattia, anche se nella maggior parte dei casi compare entro due o tre anni dall’esordio. Si tratta di un evento importante nella storia naturale del LES poichè rappresenta un aggravamento della malattia e quindi richiede un’accurata definizione diagnostica e, soprattutto, un adeguato intervento terapeutico. I reni svolgono nell’organismo un ruolo molto importante. La loro funzione è quella di filtrare il sangue eliminando le sostanze di scarto, quelle cioè che derivano dal metabolismo dei tessuti (scorie), e trattenendo quelle utili. Ogni rene è formato da tante piccole unità filtranti, chiamate glomeruli, che, semplificando, sono delle membrane dove inizia a formarsi l’urina derivata dalla filtrazione del sangue. Questa viene poi convogliata attraverso una serie di canali di diametro via via maggiore fino alla vescica per essere poi periodicamente eliminata. Nei pazienti affetti da LES l’infiammazione coinvolge proprio i glomeruli, infatti il termine medico correntemente usato per descrivere questa affezione è “glomerulonefrite” lupica. L’infiammazione dei glomeruli determina un’alterazione delle membrane attraverso cui il sangue viene filtrato. Le membrane alterate lasciano passare nelle urine un’abnorme quantità di proteine ed alcune cellule del sangue: globuli rossi e globuli bianchi. La comparsa di proteine, globuli rossi e globuli bianchi nelle urine viene indicata rispettivamente con il termine di proteinuria, ematuria e leucocituria. Nella maggior parte dei casi l’infiammazione dei glomeruli non comporta, almeno inizialmente, una riduzione della funzione di questi che, invece, continuano ad adempiere ai loro compiti in modo pressoché normale. Se però tale situazione viene trascurata, l’infiammazione dei glomeruli diventa sempre più intensa e con il passare del tempo si instaurano delle alterazioni irreversibili (sclerosi) che comportano una progressiva riduzione della funzione di queste strutture. Per questo motivo il riscontro di un interessamento renale è un evento che richiede sempre un’attenta valutazione diagnostica e terapeutica. Al giorno d’oggi esistono protocolli terapeutici che, se applicati in modo corretto ed in tempo utile, consentono di ridurre o di eliminare l’infiammazione renale prevenendo l’instaurarsi dei danni irreversibili e quindi la conseguente perdita della funzione di quest’organo. In alcuni casi l’infiammazione dei glomeruli è così intensa da produrre fin dall’inizio una riduzione della funzione renale. Anche in questi casi, tuttavia, instaurando una terapia adeguata prima che si siano verificati dei danni irreversibili è possibile osservare il recupero di una normale funzionalità renale. I sintomi e i segni che indicano l’insorgenza della glomerulonefrite lupica sono pochi. Essa infatti non determina dolore alla schiena, come molte persone pensano, né causa dolore o bruciore durante la minzione (fare la pipì). La glomerulonefrite inizia generalmente in maniera subdola e possono trascorrere mesi prima che si renda clinicamente evidente. Per questo motivo è importante che tutti i pazienti si sottopongano a regolari e periodici controlli clinici e bioumorali non appena viene diagnosticato loro il LES. Uno dei primi segni clinici è l’aumento del peso corporeo e la comparsa di gonfiore (edema) alle gambe, caviglie e piedi, spesso preceduto da gonfiore alle palpebre al risveglio al mattino, dovuto alla perdita di proteine con le urine. Il gonfiore è forse il primo segno di glomerulonefrite che il paziente nota e riferisce al medico. Altre manifestazioni che possono essere osservate nei casi ad esordio severo sono l’ipertensione arteriosa e l’emissione di urine scure, spesso in quantità ridotta nell’arco di una giornata. Più frequentemente sono le alterazioni urinarie ad annunciare la comparsa della glomerulonefrite lupica. Possono comparire proteinuria (proteine nelle urine), ematuria globuli rossi nelle urine) e leucocituria (leucociti, cioè globuli bianchi nelle urine). In alcuni pazienti le alterazioni urinarie sono modeste e possono essere presenti occasionalmente. In questo caso è indicato uno stretto monitoraggio, ma non sono necessari interventi urgenti. In altri pazienti le alterazioni urinarie sono persistenti e/o tendono a peggiorare nel tempo. Questi pazienti devono essere sottoposti ad ulteriori indagini per un’accurata definizione del tipo di alterazione renale e per una valutazione del miglior approccio terapeutico. Vi sono vari esami utili per accertare l’esistenza e/o per valutare l’evoluzione della glomerulo nefrite in un paziente affetto da LES:
Esame d elle urine. L’esame delle urine è un test semplice e molto utilizzato che consente di dimostrare alterazioni glomerulari anche lievi. Nel campione di urine vengono ricercate le proteine e le cellule del sangue (globuli rossi e bianchi), tutti elementi che generalmente non sono riscontrabili nelle urine di soggetti normali. Le proteine e le cellule del sangue possono raccogliersi nei tubuli renali (formando degli ammassi di forma cilindrica) ed essere quindi eliminate come “cilindri”. I cilindri urinari, così come le cellule del sangue, sono dimostrabili esaminando le urine al microscopio ottico. Il ritrovamento nelle urine di proteine (proteinuria), globuli rossi (ematuria), globuli bianchi (leucocituria) e cilindri (cilindruria) suggerisce la possibile esistenza di una glomerulo nefrite e indica l’opportunità di eseguire ulteriori indagini.
Esami del sangue. L’esame del sangue è utile per verificare se i reni svolgono la loro funzione in modo corretto. Il dosaggio dell’azotemia e della creatininemia viene eseguito per vedere se le scorie metaboliche sono adeguatamente eliminate dai reni oppure se aumentano di concentrazione nel sangue (in caso di malfunzionamento dei reni). La perdita delle proteine con le urine provoca una riduzione dei livelli di proteine nel sangue che vengono dosati con la protidemia totale. Alcuni studi chimici quali la concentrazione di sodio, potassio e bicarbonati sono utili per verificare eventuali alterazioni del rapporto tra sali ed acqua nel sangue.
Rivestono poi una notevole importanza i dosaggi di alcuni parametri comunemente adoperati per la definizione della malattia. In particolare il dosaggio di alcune frazioni del complemento (C3 e C4) e degli anticorpi anti-DNA nativo sono considerati esami utili per monitorare l’attività della glomerulonefrite lupica.
Esame d elle urine raccolte nelle 24 o re. Gli esami eseguiti nelle urine raccolte nelle 24 ore sono più precisi nell’indicare l’eventuale presenza di una glomerulonefrite lupica. Tra gli esami più importanti vi sono la determinazione dell’esatta quantità di proteine persa nelle 24 ore (proteinuria delle 24 ore) e della quantità di scorie metaboliche presenti nelle urine raccolte nell’arco di una giornata (creatininuria delle 24h). uest’ultimo parametro rapportato alla concentrazione delle stesse scorie nel sangue (creatininemia) dà una buona
misura della funzione renale.
Ecografia renale. L’ecografia fornisce dei dati sulla forma e dimensione dei reni. Questo esame viene generalmente eseguito prima della biopsia renale ed è un’utile guida per la sua esecuzione.
Biopsia renale. Devono essere sottoposti a biopsia renale tutti i pazienti che presentano alterazioni degli esami delle urine o del sangue indicativi di glomerulonefrite. Questa manovra viene eseguita in ambiente ospedaliero. Consiste nel prelievo di un piccolo pezzettino di tessuto renale, eseguito in anestesia locale, pungendo il rene attraverso la pelle della regione lombare con un ago un po’ più grosso di quelli normalmente utilizzati per i prelievi di sangue. Si tratta di una manovra generalmente ben tollerata e che solo raramente può causare delle complicanze, generalmente di lieve entità ed a rapida risoluzione. Il campione di tessuto renale ottenuto con la biopsia renale viene esaminato al microscopio (“esame istologico”). In questo modo è possibile valutare l’entità dell’infiammazione renale e l’eventuale presenza di alterazioni glomerulari, espressione di un danno permanente (sclerosi). La terapia deve tener conto di numerosi fattori. Come ho appena detto il fattore principale è rappresentato dalle alterazioni istologiche; altri fattori da tenere in considerazione sono l’insufficienza renale, l’ipertensione arteriosa, l’entità della proteinuria e dell’edema e le alterazioni sieroimmunologiche quali l’aumento del livello degli anticorpi anti-DNA nativo e la riduzione del complemento (C3 e C4).La glomerulonefrite mesangiale è una forma piuttosto lieve; nei pazienti che presentano questo quadro è sufficiente una terapia con dosi medie di cortisone che vanno poi gradualmente ridotte in rapporto all’andamento clinico e bioumorale. Questi pazienti vanno tuttavia strettamente controllati per la possibilità che tale forma evolva in forme più severe. Le glomerulonefriti proliferativa focale e proliferativa diffusa sono caratterizzate dallo stesso tipo di alterazioni istologiche anche se di diversa entità. Poichè è frequente l’evoluzione della forma focale nella forma diffusa si tende a trattare le due forme in modo simile. Se non viene adeguatamente trattata, la glomerulonefrite proliferativa ha una prognosi cattiva e comporta, nel tempo, una perdita della funzionalità renale in un’alta percentuale di casi. Per questo motivo il trattamento di questa forma di glomerulo nefrite deve essere energico. Si utilizzano i cortisonici ad alte dosi per bocca o endovena da soli o più spesso associati ai farmaci citotossici. La forma membranosa, non è molto frequente e la sua terapia è ancora controversa. Tuttavia anche per questa forma si tende ad utilizzare i cortisonici associati ai farmaci immunosoppressori. Alcuni pazienti (al giorno d’oggi per fortuna pochi), nonostante un appropriato trattamento, possono sviluppare una progressiva perdita della funzione dei reni. Finchè l’insufficienza renale è modesta, è sufficiente mantenere una terapia di supporto (diuretici, antiipertensivi, etc.); quando però l’insufficienza renale diventa grave (insufficienza renale terminale) i pazienti devono essere sottoposti a dialisi.

giovedì 16 settembre 2010

LE ALTERAZIONI DELLE CELLULE DEL SANGUE

Il sangue è formato da una parte liquida, chiamata plasma, che è costituita in massima parte da acqua, proteine e da altre sostanze inorganiche, e da una parte corpuscolata costituita da alcune cellule: i globuli rossi, i globuli bianchi o leucociti e le piastrine. Tutte queste cellule si formano nel midollo osseo, detto appunto ematopoietico (fabbricatore di sangue) a partire da una comune cellula capostipite: la cellula staminale multipotente I globuli rossi hanno la funzione di trasportare l’ossigeno ai tessuti; contengono l’emoglobina,una proteina che può legare più molecole di ossigeno per volta rilasciandole poi facilmente ai tessuti. I globuli bianchi si distinguono in tre gruppi: i linfociti, i più piccoli e con nucleo rotondo;i monociti, i più grossi con un nucleo reniforme; i granulociti che hanno il nucleo formato da diversi lobi. I globuli bianchi costituiscono l’apparato di difesa contro le infezioni. Le piastrine non sono vere cellule, ma porzioni di citoplasma circondate da membrana, emesse da cellule particolari, i megacariociti, che si trovano nel midollo osseo. La loro funzione è di intervenire nella coagulazione del sangue. Nel LES si possono osservare alterazioni a carico di tutti gli elementi cellulari del sangue, globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, di tipo quantitativo, come l’anemia, la leucopenia o la piastrinopenia, o qualitativo come le anomalie funzionali degli stessi elementi cellulari. Queste manifestazioni rientrano nell’ambito degli undici criteri di classificazione
del LES, elaborati nel 1982 dall’“American Rheumatism Association” , e sono quindi molto importanti per la diagnosi. Possono essere rilevate mediante un semplice esame emocromocitometrico.

Criteri ematologici p er la classificazione d el LES.

• ANEMIA EMOLITICA: ematocrito minore di 35% con aumento dei reticolociti e/o della bilirubina.
• LEUCOPENIA: numero di globuli bianchi minore di 4000/mm3 in due o più determinazioni
• LINFOPENIA: numero di linfociti minore di 1500/mm3 in due o più determinazioni
• PIASTRINOPENIA: numero di piastrine minore di 100.000/mm3 in assenza di farmaci che possono determinare una riduzione della conta piastrinica.

Le manifestazioni ematologiche del LES sono comuni sia all’esordio che durante il decorso della malattia. Un’anemia o una leucopenia possono essere osservate nel 50% circa dei malati di LES, mentre la piastrinopenia è meno frequente (circa il 14,5%). Un’anemia nel LES può essere riconducibile ad un meccanismo che coinvolga o meno il sistema immunitario. Nel primo caso ritroviamo le anemie emolitiche, caratterizzate dalla distruzione dei globuli rossi, dovute a processi autoimmuni o a farmaci, e l’anemia perniciosa, dovuta ad un deficit di Vitamina B12 e/o di folati. Nel secondo caso sono comprese le forme di anemia dovute per esempio ad una malattia cronica, ad una deficienza di ferro, ad un deficit di funzionalità dei reni, all’assunzione di farmaci, ad un aumento delle dimensioni della milza (splenomegalia) o ad una ridotta funzione del midollo osseo. I meccanismi che determinano una leucopenia possono essere anch’essi dovuti a processi autoimmuni, a disfunzioni del midollo osseo, a distruzione periferica o a reazioni da farmaci.
Una piastrinopenia può essere invece dovuta ad un difetto di produzione di piastrine da parte del midollo (dovuto a farmaci o, più raramente, ad un ridotto numero dei precursori degli elementi piastrinici a livello del midollo osseo), ad un’anormale distribuzione delle stesse nell’organismo (per esempio in corso di splenomegalia congestizia queste possono venir “sequestrate” dalla milza), a una diluizione eccessiva del sangue (in seguito a infusione massiva di prodotti ematici o a plasmaferesi) o altrimenti ad una distruzione anomala delle piastrine nella milza. L’anemia deve essere sospettata in caso di pallore della cute e delle mucose. Il pallore va ricercato preferibilmente a livello delle mucose o del letto ungueale, mentre a livello
della cute, soprattutto del volto, lo stato di vasocostrizione o dilatazione dei capillari superficiali può rendere l’esame meno affidabile. Un altro aspetto dell’anemia sono i disturbi cardiocircolatori, determinati dall’aumento della frequenza cardiaca volto a bilanciare la minore capacità del sangue di trasportare l’ossigeno ai tessuti, per cui il malato potrà avvertire una sensazione di cardiopalmo, calo della pressione arteriosa e difficoltà a respirare. La scarsa ossigenazione dei tessuti sarà responsabile della debolezza,
che non è solo fisica ma anche mentale, tale da costringere il paziente a limitare la propria attività, in quanto i meccanismi di compenso possono essere sufficienti a riposo ma non dopo sforzi più o meno intensi. In particolare la ridotta ossigenazione cerebrale potrà determinare altre manifestazioni cliniche dell’anemia quali le vertigini, il mal di testa, le sensazioni di svenimento, i ronzii e i disturbi visivi. In alcuni casi, come le anemie emolitiche (autoimmuni) caratterizzate dalla distruzione dei globuli rossi principalmente a livello della milza, può comparire anche l’ittero, una particolare colorazione giallognola della cute e delle mucose, spesso associata ad emissione di urine scure. La leucopenia e la linfopenia non sono caratterizzate da segni clinici specifici ma possono essere presenti nelle fasi di attività del LES. Al contrario un aumento dei globuli
bianchi è presente in corso di infezioni o di terapia corticosteroidea.In genere la piastrinopenia è asintomatica, ma al di sotto dei 50.000 elementi/ml può comparire la porpora, ovvero la fuoriuscita di globuli rossi dai vasi sanguigni della cute con la formazione di petecchie (piccole emorragie, rotondeggianti, non rilevate sul piano cutaneo, non pruriginose e non dolenti) o di ecchimosi (chiazze emorragiche di grandezza
e forma variabile a margini sfumati), eventualmente associate a manifestazioni emorragiche (per esempio epistassi, emorragie gengivali e genitali), particolarmente gravi se colpiscono il sistema nervoso centrale. Le manifestazioni cliniche della piastrinopenia nel LES sono quindi generalmente simili a quelle riscontrate nella porpora trombocitopenica idiopatica che a volte può precedere il LES, o più raramente associarglisi. Altre volte, seppure più raramente, al LES può essere associato il quadro di una porpora trombotica trombocitopenica (PTT), caratterizzata da una sintomatologia che comprende febbre, porpora trombocitopenica (cioè dovuta ad un ridotto numero di piastrine), anemia emolitica microangiopatica (dovuta alla rottura dei globuli rossi quando passano nei capillari), alterazioni neurologiche e renali. Infine è da sottolineare la possibile associazione della piastrinopenia con aborti, trombosi e positività degli anticorpi antifosfolipidi, che configurano il quadro di una sindrome da anticorpi antifosfolipidi in corso di LES. Le alterazioni ematologiche hanno una notevole importanza non soltanto da un punto di vista diagnostico ma anche perché rappresentano degli elementi utili per valutare il grado di attività della malattia, tanto che sono stati impiegati insieme con altri parametri, nella costruzione di indici clinici utili per seguire il malato nel tempo. Alterazioni come la leucopenia e la linfopenia possono infatti essere rilevate soprattutto nei malati di LES in fase attiva. Una leucopenia nel LES può far pensare ad un aumento dell’incidenza delle infezioni, visto che i globuli bianchi sono le cellule deputate alla difesa dagli agenti infettivi, tuttavia questo generalmente non succede se non in presenza di altri fattori predisponenti (come per esempio la neutropenia). In rapporto all’attività di malattia, la piastrinopenia permette di dividere i malati di LES con questa manifestazione in due gruppi: il primo gruppo comprende quei malati che presentano questa
manifestazione ematologica solo durante le fasi di riacutizzazione grave della malattia con compromissione a livello di più organi ed apparati; il secondo gruppo è invece rappresentato da quei pazienti che cronicamente presentano una riduzione del numero delle piastrine generalmente associata a riacutizzazioni di grado più lieve. Pertanto la piastrinopenia può essere considerata un utile indice di attività di malattia, senza che, peraltro, vi sia un’aumentata tendenza al sanguinamento. Come già ricordato precedentemente,
la piastrinopenia è stata infine descritta come una delle manifestazioni della sindrome da anticorpi antifosfolipidi, sia questa associata o meno al LES. Se si tratta di un’anemia secondaria ad una malattia cronica (dove possono essere implicati numerosi fattori come alterazioni del rilascio del ferro, deficit di sostanze come l’eritropoietina che stimola la produzione dei globuli rossi, inibitori della produzione dei
globuli rossi) il trattamento è diretto verso la malattia di base associato eventualmente all’assunzione di ferro. L’eritropoietina è utile in caso di anemia legata a insufficienza renale cronica; nei malati di LES viene utilizzata quando la malattia non è in fase attiva. Se si tratta di un’anemia perniciosa associata a LES è necessaria la somministrazione di vitamina B12, acido folico e di cortisonici. I cortisonici sono altresì estremamente importanti nel trattamento dell’anemia emolitica autoimmune, sono utilizzati alle dosi di 1-1.5
mg/kg/die, preferibilmente, all’inizio della terapia, per via endovenosa, con successive riduzioni del dosaggio dopo almeno 4-6 settimane, valutando la risposta clinica e di laboratorio con particolare riguardo al numero dei reticolociti (precursori dei globuli rossi), utile per controllare un’eventuale ripresa del processo emolitico. Nei casi severi e rapidamente progressivi di anemia emolitica autoimmune, i cortisonici possono essere impiegati in boli endovenosi da 1g/die per tre giorni consecutivi, passando successivamente ai dosaggi convenzionali, mentre nei casi ancora resistenti si può prendere in considerazione l’impiego dell’azatioprina, del danazolo, della plasmaferesi o delle immunoglobuline ad alte dosi per via endovenosa. Una piastrinopenia marcata (<50.000/mL) necessita del trattamento con cortisonici alla dose di 1-1,5 mg/kg/die di prednisone che determina una risposta clinica nell’arco di 1-8 settimane. Il cortisone previene il sequestro delle piastrine rivestite da anticorpi a livello della milza; questo tipo di terapia è stata infatti anche definita come “splenectomia medica”. La splenectomia chirurgica o asportazione chirurgica della milza, che elimina definitivamente il sito più importante di distruzione delle piastrine e della formazione di anticorpi antipiastrine, andrebbe riservata ai casi in cui la terapia con il cortisone, o con farmaci quali l’azatioprina, la ciclofosfamide, la ciclosporina, il danazolo o le immunoglobuline, perché risultata inefficace o gravata da importanti effetti collaterali. Le trasfusioni di sangue, se possibile, dovrebbero essere evitate nei malati di LES, non solo per i rischi di epatite o altre malattie infettive (peraltro al giorno d’oggi estremamente ridotti), ma anche per il fatto che i malati di LES, proprio per le alterazioni del loro sistema immunitario, possono sviluppare anticorpi verso i globuli rossi provenienti da altri soggetti compatibili per il gruppo sanguigno. Pertanto le emotrasfusioni dovrebbero essere riservate solo a quei casi di emorragia acuta massiva o nei pazienti sintomatici (cioè che accusano i disturbi descritti all’inizio di questo capitolo) con livelli di emoglobina inferiori ai 6 g/dl.

mercoledì 14 luglio 2010

IL LUPUS E LA FOTOSENSIBILITÀ

Fin dall’antichità il sole è sempre stato considerato fonte della vita sulla terra tanto che vari popoli pagani tra cui gli Egizi avevano fatto di questo corpo celeste una divinità. A distanza di millenni il sole significa ancora impulso vitale, energia, voglia di vivere; tutti i giorni i media ci propongono lo stereotipo di una “bella abbronzatura” pubblicizzando una grande varietà di prodotti specifici. Tuttavia a chi è affetto da LES è stato certamente consigliato di evitare l’esposizione al sole: questo perché il lupus eritematoso è una malattia che noi definiamo “fotosensibile”. Le malattie “fotosensibili” sono un gruppo di affezioni dermatologiche le cui manifestazioni possono essere causate, mantenute o aggravate dall’esposizione alla luce solare. Nel caso del lupus eritematoso sistemico (LES) l’esposizione al sole può addirittura indurne o aggravarne anche le manifestazioni sistemiche (febbre, malessere generale, artrite). Inoltre, le persone affette da LES possono manifestare, dopo esposizione al sole, reazioni cutanee “esagerate” per intensità ed estensione, dette reazioni fotosensibili. Questo tuttavia non significa dover vivere “al buio”; certamente una migliore conoscenza del problema potrà aiutare a gestire meglio il rapporto col sole. La fotosensibilità non interessa tutti i pazienti affetti da LES ma solo una parte, dal 20% al 60% secondo diversi studi, ed è possibile che lo stesso paziente non sia sempre ugualmente a rischio di fotosensibilità. Purtroppo non abbiamo a disposizione degli indici precisi che ci permettano di individuare quali pazienti siano fotosensibili e quali invece no. Orientativamente il rischio di fotosensibilità è maggiore nei pazienti con malattia “attiva”, in quelli che hanno o hanno avuto manifestazioni cutanee o precedenti episodi di fotosensibilità, o che hanno alcuni autoanticorpi particolari. Dobbiamo immaginare che la materia sia per così dire immersa nella luce, bombardata continuamente da radiazioni elettromagnetiche, visibili o invisibili ai nostri occhi, provenienti
dal sole o dalle stelle. Alcuni tipi di luce, o più correttamente di radiazione elettromagnetica, sono in grado di interagire con la materia rendendo possibili alcune particolari reazioni chimiche, che definiamo “fotochimiche”, che portano alla formazione di particolari composti reattivi in grado di innescare delle reazioni biologiche importanti. Ma non tutta la radiazione luminosa può causare queste reazioni: per un paziente con
LES è pertanto fondamentale individuare se esiste un tipo particolare di luce responsabile della fotosensibilità. Pensiamo ad un arcobaleno: lo abbiamo visto certamente tutti. Con grande stupore, da bambini ci siamo chiesti quale mistero fosse nascosto in questa meravigliosa striscia di colori che compare al termine di un temporale, quando le nuvole si spostano per lasciar spazio a qualche raggio di sole.
Lo stesso mistero ha affascinato per secoli anche gli scienziati e gli studiosi della natura ed è solo da poche centinaia di anni che le leggi della fisica hanno permesso di darne una spiegazione. Quella che noi percepiamo come luce bianca è in realtà costituita da una mescolanza di colori diversi e le goccioline di acqua presenti nell’aria non fanno altro che separarli mostrandoci i colori dell’arcobaleno: questo fenomeno viene chiamato “diffrazione”della luce. Avrete notato come il colore più alto che compare nell’arcobaleno sia il rosso e il più basso il viola; in mezzo, nell’ordine, arancione, giallo, verde, azzurro e blu. Questo è quantomeno quello che il nostro occhio è in grado di percepire. Con opportuni strumenti possiamo infatti dimostrare che c’è dell’altra “luce” sopra il rosso (raggi infrarossi) e anche sotto il viola (raggi ultravioletti), anche se noi non li vediamo. Non solo, se potessimo vederli ci accorgeremmo che anche nella banda degli ultravioletti vi sono delle sfumature di colore diverse che con i nostri strumenti possiamo quindi suddividere in UVA, UVB e UVC (questi ultimi però non riescono a raggiungere la superficie terrestre perché vengono “filtrati” dallo strato di ozono presente nella fascia più alta dell’atmosfera). Esponendo piccoli quadratini di pelle a vari tipi di luce prodotti in laboratorio con apposite apparecchiature (fototest), è stato possibile dimostrare che non tutta la luce solare è in grado di indurre reazioni di fotosensibilità nei pazienti con LES, ma solo la frazione degli ultravioletti (soprattutto UVB, ma anche UVA) ed è da questi quindi che dobbiamo
imparare a proteggerci. Bisogna comunque ricordare che:
1) Questa prova non è una metodica ben standardizzabile né sufficientemente precisa per cui potrebbe non identificare alcuni dei soggetti fotosensibili;
2) in alcuni casi le lesioni cutanee indotte dal fototest potrebbero lasciare degli esiti permanenti sulla pelle per cui non ne è proponibile la somministrazione su larga scala;
3) lo stato di fotosensibilità è variabile nelle varie fasi della malattia per cui, dall’esame non si potrebbe trarre un’indicazione definitiva;
4) la terapia somministrata per la cura del LES potrebbe mascherare un’eventuale reazione di fotosensibilità;
5) la positività del fototest potrebbe essere dovuta all’assunzione di farmaci ad azione fotosensibilizzante.
Prevenire una possibile reazione da fotosensibilità implica la conoscenza di alcuni concetti fondamentali su “come, dove e quando” si trovano gli UV. L’intensità dell’irradiazione UV nell’ambiente dipende da alcuni parametri:
1) la latitudine: quanto più ci si allontana dall’equatore tanto minore sarà la quantità di UV presenti nella luce solare;
2) la stagione: il massimo irraggiamento UV alle nostre latitudini si ha durante il mese di luglio;
3) l’ora: il picco di irraggiamento si ha tra le ore 11 e le 15;
4) l’altezza sul livello del mare: l’aria assorbe infatti una parte degli UV per cui più in alto si va e più si assottiglia lo strato “filtrante” col risultato di una maggiore quantità di ultravioletti a cui ci si espone (possiamo dire che la quantità di UV aumenta di circa il 4% ogni 300 metri di quota);
5) l’entità dello strato di ozono: dotato di notevole capacità filtrante, e della cui riduzione purtroppo si parla molto spesso;
6) le nuvole: filtrano anch’esse gli UV anche se molto meno di quello che saremmo portati a credere (orientativamente un cielo coperto trattiene poco meno del 30% della quantità normale di ultravioletti);
7) le superfici riflettenti: una parte considerevole di UV può essere riflessa dagli oggetti che ci circondano venendo così a sommarsi con quelli provenienti direttamente dal sole. La neve, ad esempio, ne riflette l’85%, l’intonaco bianco delle abitazioni o il cemento circa il 45%, la sabbia il 25%, l’acqua del mare poco più del 5% (ma attenzione! Stando in acqua lo strato corneo della pelle, quello strato cioè formato da cellule morte e che ha una fondamentale funzione protettiva, perde una buona parte della sua efficacia schermante);
8) le sorgenti artificiali di UV: la maggior parte delle quali presenti in ambiente lavorativo (saldatori, fotocopiatrici, proiettori luminosi, impianti di illuminazione di studi televisivi).
Preso atto di questi dati si possono certamente elaborare diversi modi per difendersi:
1) modificare le nostre abitudini o i nostri comportamenti abituali: per esempio uscire a far la spesa al mattino presto piuttosto che in tarda mattinata, andare in ferie in settembre piuttosto che in luglio, non in alta montagna e possibilmente verso nord piuttosto che verso sud…
2) modificare, per quello che è possibile, l’ambiente circostante: ad esempio mettere una bella tettoia in giardino, un ombrellone in spiaggia (non dimenticando però le superfici riflettenti di cui abbiamo parlato prima), una tendina in ufficio, i vetri scuri in automobile (può bastare applicare sui vetri laterali una pellicola di plastica trasparente che da sola blocca una buona parte degli UV);
3) indossare vestiti adeguati: preferire il cotone o la lana ai tessuti sintetici, tessuti colorati piuttosto che bianchi, possibilmente a trama fitta; riscoprire il fascino del cappellino, magari a falda larga e – perché no? – dei guanti bianchi e dell’ombrellino della nonna!
4) protezione solare adeguata (di cui parleremo in dettaglio più avanti);
5) l’uso di autoabbronzanti: non quelli che richiedono una successiva esposizione al sole! Vanno bene invece quelli a base di diidrossiacetone; il loro uso conferisce alla pelle una colorazione più scura (per quanto leggermente tendente all’arancione e qualche volta non perfettamente omogenea) che è ritenuta più gradevole di un candido pallore (opinabile, comunque, che una pelle bianca non sia di per sé bella) e che probabilmente conferisce un certo grado di protezione contro gli ultravioletti (soprattutto quelli a maggior lunghezza d’onda che sono i più difficili da bloccare);
6) l’assunzione di farmaci ad azione protettiva: l’idrossiclorochina ha un effetto protettivo nei confronti del comune eritema solare e quando possibile conviene usarla durante il periodo estivo, anche se non tutti sono concordi sulla reale efficacia nelle manifestazioni di fotosensibilità in corso di LES. Il beta-carotene e gli anti-ossidanti, di cui tanto si sente parlare, non hanno invece alcuna importanza riconosciuta nella protezione dei pazienti fotosensibili.
Ci sono prodotti ad uso esterno (crema, latte, gel) che applicati sulla cute la proteggono dai raggi UV. Questi contengono sostanze chimiche diverse in grado di assorbire i raggi ultravioletti dissipandone l’energia in maniera innocua per la pelle (filtri chimici) o in grado di rifletterli o disperderli nell’ambiente circostante (schermi fisici). Ognuna di queste sostanze ha proprie caratteristiche di assorbimento o di riflessione
per cui dalla loro combinazione si ottengono prodotti a maggiore efficacia protettiva. Quali caratteristiche deve avere un prodotto per la protezione solare per il paziente affetto da LES?
La cosa più importante è la capacità di bloccare tutti i raggi ultravioletti, sia gli UVA che gli UVB. Purtroppo il “fattore di protezione” comunemente indicato sulle confezioni si riferisce solo alla capacità di proteggere dagli UVB (che sono quelli maggiormente in grado di causare scottature solari) e non tiene affatto in considerazione gli UVA (che però sono anch’essi potenzialmente causa di fotosensibilità). Alcuni prodotti più moderni, invece, recano oltre al classico “fattore di protezione”, anche un indice di protezione dagli UVA. Tuttavia non esiste ancora una metodica standardizzata per la determinazione del “fattore di protezione per gli UVA” per cui non è possibile comparare prodotti di marche diverse sulla base del semplice confronto dei
numeri. Un’ultima caratteristica importante da valutare è la “capacità di restare sulla pelle” (sostantività) del prodotto; infatti anche il più completo schermo solare vale poco se poi viene facilmente rimosso col sudore o con l’acqua. Per questo è opportuno verificare anche che sia specificata la capacità di resistere all’acqua: i prodotti waterproof sono migliori di quelli water-resistant per la loro maggiore sostantività. Ricordiamo infine che i prodotti per la protezione solare vanno riapplicati spesso; cautelativamente potrei suggerire di riapplicarli anche ogni ora in caso di permanenza all’aperto. Il corretto utilizzo di queste informazioni potrà certamente permettere ai pazienti fotosensibili di ritagliarsi un loro ambito di “libertà”, anche a fronte della fatidica raccomandazione “eviti l’esposizione al sole”...

giovedì 17 giugno 2010

LE MANIFESTAZIONI CUTANEE

LE MANIFESTAZIONI CUTANEE
Alla domanda se è necessario trattare le manifestazioni cutanee del lupus è molto difficile dare una risposta. Il trattamento è sicuramente necessario quando le manifestazioni cutanee si accompagnano ad un concomitante interessamento di altri organi o apparati. Nei casi in cui non sono interessati altri organi o apparati in modo clinicamente significativo, in presenza pertanto di sole implicazioni estetiche, occorre
valutare insieme al paziente l’opportunità di un trattamento specifico. Questo potrebbe consistere nella somministrazione di antimalarici o di cortisonici. Se già precedentemente assunti, la loro dose può essere aumentata; nei casi più impegnativi si può arrivare ad associare un trattamento immunosoppressivo. La scelta del farmaco immunosoppressore, di esclusiva competenza di medici specialisti, rende necessario considerare diversi fattori: la presenza di altri disturbi o dell’interessamento di altri organi, l’assunzione di
altri farmaci con i quali potrebbero interagire, eventuali altri problemi di salute, anche non direttamente collegati al LES. Non dimentichiamo però che in alcuni casi, quando cioè le manifestazioni sono localizzate ad una area cutanea ristretta, come nell’eritema malare classico, si può consigliare anche l’uso di creme o pomate a base di prodotti lenitivi o di cortisone: in quest’ultimo caso bisogna ricordare che l’uso per periodi di tempo lunghi di cortisonici, soprattutto se potenti, rende la pelle più sottile favorendo la comparsa o l’aggravamento della couperose. Per ridurre questo rischio occorre usare prodotti di potenza non molto alta, preferibilmente cortisonici topici introdotti in commercio più recentemente, i quali sembrano mostrare una minor tendenza all’induzione dell’atrofia cutanea. In associazione è possibile utilizzare delle creme che contrastino l’effetto atrofizzante dei corticosteroidi sulla cute.
Le manifestazioni del lupus eritematoso cutaneo acuto possono essere indotte o aggravate dall’esposizione ai raggi ultravioletti. Da qui deriva la necessità di proteggere la cute mediante creme protettive adeguate, in grado cioè di bloccare tanto gli UVB (quelli in grado di provocare le “scottature” sulla pelle) quanto gli UVA (quelli che inducono l’abbronzatura). Negli ultimi anni sono stati studiati prodotti molto sofisticati, in grado di offrire una ragionevole sicurezza. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che anche un fattore di protezione pari a 90 o 100, che può sembrare molto elevato, non significa comunque garanzia assoluta di protezione totale ed è pertanto indispensabile adattare il nostro comportamento evitando prudentemente le occasioni di esposizione solare.
I casi più difficili sono quelli in cui le manifestazioni cutanee tendono ad avere un decorso più persistente e non recedono pur in seguito a una riduzione dell’attività clinica del LES. In parole semplici, è come se le diverse manifestazioni cliniche del LES in certi casi mostrassero una diversa risposta alla terapia. Può succedere, ad esempio, che una certa dose di cortisone, con l’antimalarico ed eventualmente un immunosoppressore possano controllare molto bene l’artrite, l’interessamento renale, normalizzare l’anemia e la leucopenia, ridurre la VES, ma non spegnere del tutto le manifestazioni del lupus eritematoso cutaneo acuto. In questi casi è comunque questione di tempo, anche se è comprensibile che un paziente con un eritema malare molto visibile non sia molto disposto ad attendere. Ecco allora che, in casi selezionati, quando la terapia con i farmaci “convenzionali” non ha dato risultati, possono essere impiegati altri approcci terapeutici. Anche in questi casi le considerazioni che portano alla decisione terapeutica sono complesse e dipendono dalle condizioni cliniche del paziente, dall’esperienza del medico, e - non ultima - dalla reperibilità del farmaco, dal momento che alcuni di questi non sono venduti in Italia. Nel caso delle manifestazioni acute del lupus eritematoso cutaneo non è necessario un “perfetto” controllo terapeutico - ovviamente riferendosi al solo punto di vista dermatologico- se ci sono segni clinici di interessamento di altri organi allora è un altro discorso. Infatti, mentre il lupus eritematoso cutaneo cronico può lasciare esiti cicatriziali permanenti, per cui è necessario attuare quanto prima un trattamento adeguato per prevenirli, il lupus eritematoso cutaneo acuto si risolve in genere senza conseguenze esteticamente rilevanti.

LUPUS ERITEMATOSO CUTANEO SUBACUTO
Il lupus eritematoso cutaneo subacuto si manifesta clinicamente con delle chiazze rosse (eritematose) sulle quali è possibile notare una quantità più o meno abbondante di squame biancastre (desquamazione). Le sedi corporee più comunemente interessate sono: la metà superiore del dorso, soprattutto centralmente, fra le scapole (Figura 2); la regione sternale (lo sterno è l’osso posto al centro del petto) fino al collo, anteriormente; la parte esterna delle braccia e degli avambracci. Si possono distinguere 2 tipi di lupus eritematoso cutaneo subacuto. Il primo è quello definito “psoriasiforme”, in cui le chiazze, di forma rotondeggiante o ovalare, si presentano ricoperte su tutta la loro estensione da una abbondante desquamazione, simile a delle scagliette di forfora, ma molto più numerose. Il secondo è definito anulare-policiclico perché le chiazze di lupus eritematoso cutaneo subacuto tendono ad estendersi centrifugamente risolvendosi nella loro parte centrale, venendo così ad assumere una configurazione ad anello (anulare). Anelli diversi possono estendersi fino a confluire formando delle aree irregolari (margini policiclici), sempre con aspetto eritematoso e squamoso. Le manifestazioni cutanee del lupus eritematoso cutaneo subacuto hanno un andamento imprevedibile e possono risolversi anche spontaneamente, persistere nella stessa sede per tempi anche molto lunghi, o, infine, sparire in un’area per ripresentarsi in un’altra.
Il lupus eritematoso cutaneo subacuto può essere visto come manifestazione isolata, quindi non necessariamente in pazienti con una forma sistemica di malattia e si tratta comunque di forme di LES generalmente non molto aggressive. Le manifestazioni del lupus eritematoso cutaneo subacuto sono, come si usa dire, fotosensibili: significa che l’esposizione ai raggi ultravioletti può indurne la comparsa o aggravarle.
La fotosensibilità potrebbe essere legata ad alcuni autoanticorpi particolari, frequenti nei pazienti con lupus eritematoso cutaneo subacuto e possono essere riscontrati all’esordio o durante il periodo successivo. Il lupus eritematoso cutaneo subacuto è una manifestazione un po’ capricciosa, nel senso che in genere risponde poco al trattamento cortisonico o agli antimalarici; in certi casi addirittura si sono viste insorgere manifestazioni di lupus eritematoso cutaneo subacuto in pazienti che già assumevano questi farmaci per il controllo del LES. La prima cosa da fare, tuttavia, è aumentare la dose del cortisonico e sostituire l’antimalarico. Se questo non produce un beneficio significativo occorre aggiungere altri farmaci
efficaci,

LUPUS ERITEMATOSO CUTANEO CRONICO
Il lupus eritematoso cutaneo cronico rappresenta il terzo tipo di manifestazione cutanea specifica del lupus eritematoso. Il termine “cronico” è riferito non tanto alla tendenza all’evoluzione prolungata nel tempo quanto all’aspetto istologico, cioè alle modificazioni che si osservano quando una di queste lesioni viene sottoposta a biopsia e analizzata al microscopio. Per quanto riguarda l’evoluzione nel tempo, infatti, dobbiamo precisare che anche se il danno causato alla pelle da una chiazza di lupus eritematoso cutaneo cronico non trattata può essere permanente, la fase dell’infiammazione attiva può essere limitata nel tempo e sopratutto può essere ben controllata dalla terapia medica. Le manifestazioni di lupus eritematoso cutaneo cronico venivano in passato chiamate “LED”, cioè lupus eritematoso “discoide”; lo stesso termine veniva usato in contrapposizione a LES per indicare quella malattia caratterizzata dalle sole manifestazioni cutanee,
senza cioè nessun tipo di interessamento degli organi interni. A volte però le chiazze di lupus eritematoso cutaneo cronico potevano rappresentare il quadro d’esordio di un lupus con interessamento sistemico e la successiva comparsa di altre manifestazioni faceva ritenere che il LED si fosse trasformato o fosse “virato” in LES. Questa ambiguità ha creato molta confusione nella mente dei “non addetti ai lavori” per cui preferiamo indicare le manifestazioni cutanee del lupus eritematoso come acute, subacute o croniche, indipendentemente dalla presenza o dall’assenza di altri segni clinici di interessamento di organi diversi dalla cute e riservare il termine di LED solo a quelle chiazze di lupus eritematoso cutaneo cronico con aspetto rotondeggiante, “a disco”.L’aspetto clinico del lupus eritematoso cutaneo cronico è molto diverso nelle varie fasi della sua evoluzione. Inizia come una chiazza rotondeggiante, infiammata, di colore rosso, che ben presto diventa rilevata, “gonfia”, a causa dell’accumularsi nella pelle di globuli bianchi, le cellule che contribuiscono all’infiammazione. Man mano che la chiazza si estende in larghezza, comincia a rendersi visibile un accumulo di squame biancastre (le squame sono simili alla forfora) che caratteristicamente restano ben attaccate alla pelle sottostante estendendosi anche all’interno dei follicoli piliferi. La maggior parte delle chiazze di lupus eritematoso cutaneo cronico si localizzano al capo, sia sul viso che sul cuoio capelluto, pur essendo comunque possibile l’interessamento di qualunque sede corporea.Il trattamento delle manifestazioni cutanee di lupus eritematoso cutaneo cronico deve essere precoce ed efficace, in modo da “spegnere” l’infiammazione prima che ne conseguano la perdita definitiva degli annessi piliferi (capelli o barba) e/o che si formi la “cicatrice” scleroatrofica. Nei casi in cui si osservano solo manifestazioni cutanee di lupus eritematoso cutaneo cronico, in assenza di segni o sintomi di malattia sistemica, si inizia generalmente con dei cortisonici ad uso topico da applicare esternamente sulla cute interessata (uso topico). Il lupus eritematoso cutaneo cronico può manifestarsi in pazienti con LES preesistente, già in trattamento con antimalarici e cortisonici per via generale. In questi casi si riesce spesso a risolvere l’infiammazione con l’applicazione di prodotti cortisonici per uso topico.

lunedì 10 maggio 2010

LE MANIFESTAZIONI MUSCOLO-SCHELETRICHE

I dolori articolari e muscolari nel LES sono frequenti. Le manifestazioni articolari, in particolare, sono le più frequenti in senso assoluto e la quasi totalità dei pazienti ne fa esperienza nel corso della malattia. In circa la metà dei casi esse precedono di mesi o anche di alcuni anni altre manifestazioni di malattia. Sono colpite più spesso le articolazioni delle mani: interfalangee prossimali e metacarpofalangee, i polsi e le ginocchia. Le altre articolazioni vengono interessate con minore frequenza. La colonna vertebrale, normalmente, non è interessata, tranne il tratto cervicale. Il problema può manifestarsi soltanto con artralgie, ovvero con dolori articolari in genere di modesta entità, oppure, meno spesso, con un’artrite. In tal caso oltre al dolore articolare sono presenti i segni tipici dell’infiammazione: gonfiore dell’articolazione interessata, cute sovrastante calda ed alle volte arrossata, limitazione funzionale (cioè difficoltà a muovere l’articolazione). Le artralgie sono in genere diffuse, mentre l’artrite può essere a carico di poche (oligoartrite) o di diverse articolazioni (poliartrite), nella maggioranza dei casi con una distribuzione simmetrica (cioè colpisce le stesse articolazioni in entrambe le parti del corpo). Nel lupus il sistema immunitario produce autoanticorpi in abbondanza con conseguente formazione di grandi quantità di complessi costituiti dall’associazione di un anticorpo con la sostanza verso cui quest’ultimo è rivolto. Questi tendono a depositarsi a livello dei tessuti e vi attirano globuli bianchi dal sangue che liberano sostanze chimiche con proprietà infiammatorie. Il dolore articolare è causato dalla liberazione di questi mediatori a livello articolare. Nelle articolazioni il processo infiammatorio ha origine a livello della membrana sinoviale, una sottile membrana che riveste le cavità delle articolazioni chiamate per l’appunto “sinoviali”, come per esempio quelle degli arti. Queste sono costituite da due capi ossei ricoperti da cartilagine compresi in uno spazio delimitato da una capsula articolare rivestita all’interno dalla membrana sinoviale. Nel lupus si realizza una infiammazione a caricoproprio di questa membrana realizzando il quadro di una “sinovite”. Diversamente da quanto accade nell’artrite reumatoide, l’artrite che si realizza nel lupus tende ad essere transitoria e non comporta erosioni. Queste si hanno soltanto in una piccola percentuale di pazienti configurando una condizione denominata da alcuni studiosi come sindrome “rhupus”, associazione di lupus con artrite reumatoide. Poichè la membrana sinoviale riveste all’interno anche le guaine dei tendini, nel lupus possono verificarsi anche tendiniti, cioè infiammazioni a carico dei tendini. Deformazioni irreversibili sono tipiche dell’artrite reumatoide; nel lupus invece, in relazione con un interessamento prolungato ed una iperlassità delle strutture periarticolari delle mani e delle dita e spasmo dei piccoli muscoli delle mani, può realizzarsi un’artropatia “di Jaccoud”, così denominata per le sue caratteristiche simili a quelle osservate da Jaccoud in pazienti con recidive di reumatismo articolare acuto. Questa particolare artropatia è caratterizzata da deformità articolari simili a quelle dell’artrite reumatoide; tuttavia nel LES le alterazioni articolari sono riducibili e la funzione articolare resta conservata. Una sintomatologia dolorosa a carico delle anche deve indurre a considerare l’ipotesi che si stia sviluppando una particolare affezione chiamata osteonecrosi avascolare a livello della testa del femore, in quanto le anche sono coinvolte raramente nell’artrite lupica. L’osteonecrosi è causata dall’interruzione del flusso ematico al distretto osseo colpito che, privato del necessario apporto di ossigeno, va incontro a morte (necrosi), con possibile successivo collasso della superficie articolare. L’osteonecrosi è di solito bilaterale e comporta cospicuo dolore, ma può anche essere asintomatica (cioè non dare alcun tipodi disturbo). In caso di dubbio l’indagine più sensibile per individuarla è la risonanza magnetica nucleare. Oltre che le teste femorali l’osteonecrosi può interessare altri distretti ossei, come le teste omerali e le tibie a livello del ginocchio.Tra le manifestazioni articolari occorre anche considerare la possibilità di una artriteinfettiva. Si tratta di un’eventualità piuttosto rara. Può essere la conseguenza di una riduzione delle difese contro le infezioni, sia causata dalla malattia sia dovuta ad un trattamento immunosoppressivo. L’artrite infettiva, da riconoscere e da trattare precocemente, va sospettata quando si realizza una grave infiammazione a carico di un’articolazione, sproporzionata rispetto a quella presente in altre. Dal momento che l’artropatia del lupus non ha caratteri di aggressività in genere è sufficiente un trattamento con farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) e/o con antimalarici di sintesi (idrossiclorochina). I cortisonici vengono impiegati soltanto nel caso di un fallimento di questi farmaci o di un’artrite molto severa. Per conservare la funzione articolare e la forza muscolare sono molto utili alcune misure di carattere generale e la chinesiterapia L’osteonecrosi, se individuata precocemente, può essere trattata con interventi chirurgici di decompressione midollare e in ogni caso diminuendo il carico sull’articolazione. L’artrite settica richiede invece un trattamento antibiotico specifico, spesso prolungato nel tempo. I dolori muscolari (mialgie) sono frequenti, specialmente in corso di malattia attiva. Il più delle volte essi rappresentano un dolore riferito, in relazione con l’infiammazione articolare. L’evoluzione della miosite lupica è generalmente molto favorevole. Oltre alla riduzione della forza muscolare una miosite può comportare aumento nel sangue di enzimi (come la creatinchinasi o CK) che fuoriescono dalle fibrocellule muscolari che vanno incontro a necrosi. Nel lupus una miosite può però verificarsi anche senza l’aumento di tali enzimi. In tal caso, se un elettromiogramma fornisce le prove di una sofferenza muscolare, è utile eseguire una biopsia del muscolo, che al giorno d’oggi è una metodica semplice e pressochè indolore che consiste nel prelevare un piccolissimo pezzetto di

muscolo da esaminare al microscopio.