Benvenuto nel Blog della LES

Ciao, sono il papà di una ragazza alla quale, nel 2002, è stata diagnosticato il Lupus Eritematoso Sistemico (LES). Con questo blog spero di potere aiutare qualcuno che sta attraversando questa brutta esperienza cercando di supportarlo, per quanto mi è possibile, a superare le difficoltà quotidiane e burocratiche che ho già dovuto affrontare io in passato. Un augurio di cuore a tutti. Se qualcuno vuole contattarmi direttamente può utilizzare l'indirizzo pepo1405@libero.it

Le informazioni fornite sono a scopo divulgativo e non intendono in alcun caso sostituire le indicazioni che possono essere ottenute direttamente da un medico che valuti il singolo caso. Inoltre le indicazioni relative a farmaci, procedure mediche o terapie in genere hanno un fine unicamente illustrativo e non possono sostituirsi alla prescrizione di un medico.

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mercoledì 14 luglio 2010

IL LUPUS E LA FOTOSENSIBILITÀ

Fin dall’antichità il sole è sempre stato considerato fonte della vita sulla terra tanto che vari popoli pagani tra cui gli Egizi avevano fatto di questo corpo celeste una divinità. A distanza di millenni il sole significa ancora impulso vitale, energia, voglia di vivere; tutti i giorni i media ci propongono lo stereotipo di una “bella abbronzatura” pubblicizzando una grande varietà di prodotti specifici. Tuttavia a chi è affetto da LES è stato certamente consigliato di evitare l’esposizione al sole: questo perché il lupus eritematoso è una malattia che noi definiamo “fotosensibile”. Le malattie “fotosensibili” sono un gruppo di affezioni dermatologiche le cui manifestazioni possono essere causate, mantenute o aggravate dall’esposizione alla luce solare. Nel caso del lupus eritematoso sistemico (LES) l’esposizione al sole può addirittura indurne o aggravarne anche le manifestazioni sistemiche (febbre, malessere generale, artrite). Inoltre, le persone affette da LES possono manifestare, dopo esposizione al sole, reazioni cutanee “esagerate” per intensità ed estensione, dette reazioni fotosensibili. Questo tuttavia non significa dover vivere “al buio”; certamente una migliore conoscenza del problema potrà aiutare a gestire meglio il rapporto col sole. La fotosensibilità non interessa tutti i pazienti affetti da LES ma solo una parte, dal 20% al 60% secondo diversi studi, ed è possibile che lo stesso paziente non sia sempre ugualmente a rischio di fotosensibilità. Purtroppo non abbiamo a disposizione degli indici precisi che ci permettano di individuare quali pazienti siano fotosensibili e quali invece no. Orientativamente il rischio di fotosensibilità è maggiore nei pazienti con malattia “attiva”, in quelli che hanno o hanno avuto manifestazioni cutanee o precedenti episodi di fotosensibilità, o che hanno alcuni autoanticorpi particolari. Dobbiamo immaginare che la materia sia per così dire immersa nella luce, bombardata continuamente da radiazioni elettromagnetiche, visibili o invisibili ai nostri occhi, provenienti
dal sole o dalle stelle. Alcuni tipi di luce, o più correttamente di radiazione elettromagnetica, sono in grado di interagire con la materia rendendo possibili alcune particolari reazioni chimiche, che definiamo “fotochimiche”, che portano alla formazione di particolari composti reattivi in grado di innescare delle reazioni biologiche importanti. Ma non tutta la radiazione luminosa può causare queste reazioni: per un paziente con
LES è pertanto fondamentale individuare se esiste un tipo particolare di luce responsabile della fotosensibilità. Pensiamo ad un arcobaleno: lo abbiamo visto certamente tutti. Con grande stupore, da bambini ci siamo chiesti quale mistero fosse nascosto in questa meravigliosa striscia di colori che compare al termine di un temporale, quando le nuvole si spostano per lasciar spazio a qualche raggio di sole.
Lo stesso mistero ha affascinato per secoli anche gli scienziati e gli studiosi della natura ed è solo da poche centinaia di anni che le leggi della fisica hanno permesso di darne una spiegazione. Quella che noi percepiamo come luce bianca è in realtà costituita da una mescolanza di colori diversi e le goccioline di acqua presenti nell’aria non fanno altro che separarli mostrandoci i colori dell’arcobaleno: questo fenomeno viene chiamato “diffrazione”della luce. Avrete notato come il colore più alto che compare nell’arcobaleno sia il rosso e il più basso il viola; in mezzo, nell’ordine, arancione, giallo, verde, azzurro e blu. Questo è quantomeno quello che il nostro occhio è in grado di percepire. Con opportuni strumenti possiamo infatti dimostrare che c’è dell’altra “luce” sopra il rosso (raggi infrarossi) e anche sotto il viola (raggi ultravioletti), anche se noi non li vediamo. Non solo, se potessimo vederli ci accorgeremmo che anche nella banda degli ultravioletti vi sono delle sfumature di colore diverse che con i nostri strumenti possiamo quindi suddividere in UVA, UVB e UVC (questi ultimi però non riescono a raggiungere la superficie terrestre perché vengono “filtrati” dallo strato di ozono presente nella fascia più alta dell’atmosfera). Esponendo piccoli quadratini di pelle a vari tipi di luce prodotti in laboratorio con apposite apparecchiature (fototest), è stato possibile dimostrare che non tutta la luce solare è in grado di indurre reazioni di fotosensibilità nei pazienti con LES, ma solo la frazione degli ultravioletti (soprattutto UVB, ma anche UVA) ed è da questi quindi che dobbiamo
imparare a proteggerci. Bisogna comunque ricordare che:
1) Questa prova non è una metodica ben standardizzabile né sufficientemente precisa per cui potrebbe non identificare alcuni dei soggetti fotosensibili;
2) in alcuni casi le lesioni cutanee indotte dal fototest potrebbero lasciare degli esiti permanenti sulla pelle per cui non ne è proponibile la somministrazione su larga scala;
3) lo stato di fotosensibilità è variabile nelle varie fasi della malattia per cui, dall’esame non si potrebbe trarre un’indicazione definitiva;
4) la terapia somministrata per la cura del LES potrebbe mascherare un’eventuale reazione di fotosensibilità;
5) la positività del fototest potrebbe essere dovuta all’assunzione di farmaci ad azione fotosensibilizzante.
Prevenire una possibile reazione da fotosensibilità implica la conoscenza di alcuni concetti fondamentali su “come, dove e quando” si trovano gli UV. L’intensità dell’irradiazione UV nell’ambiente dipende da alcuni parametri:
1) la latitudine: quanto più ci si allontana dall’equatore tanto minore sarà la quantità di UV presenti nella luce solare;
2) la stagione: il massimo irraggiamento UV alle nostre latitudini si ha durante il mese di luglio;
3) l’ora: il picco di irraggiamento si ha tra le ore 11 e le 15;
4) l’altezza sul livello del mare: l’aria assorbe infatti una parte degli UV per cui più in alto si va e più si assottiglia lo strato “filtrante” col risultato di una maggiore quantità di ultravioletti a cui ci si espone (possiamo dire che la quantità di UV aumenta di circa il 4% ogni 300 metri di quota);
5) l’entità dello strato di ozono: dotato di notevole capacità filtrante, e della cui riduzione purtroppo si parla molto spesso;
6) le nuvole: filtrano anch’esse gli UV anche se molto meno di quello che saremmo portati a credere (orientativamente un cielo coperto trattiene poco meno del 30% della quantità normale di ultravioletti);
7) le superfici riflettenti: una parte considerevole di UV può essere riflessa dagli oggetti che ci circondano venendo così a sommarsi con quelli provenienti direttamente dal sole. La neve, ad esempio, ne riflette l’85%, l’intonaco bianco delle abitazioni o il cemento circa il 45%, la sabbia il 25%, l’acqua del mare poco più del 5% (ma attenzione! Stando in acqua lo strato corneo della pelle, quello strato cioè formato da cellule morte e che ha una fondamentale funzione protettiva, perde una buona parte della sua efficacia schermante);
8) le sorgenti artificiali di UV: la maggior parte delle quali presenti in ambiente lavorativo (saldatori, fotocopiatrici, proiettori luminosi, impianti di illuminazione di studi televisivi).
Preso atto di questi dati si possono certamente elaborare diversi modi per difendersi:
1) modificare le nostre abitudini o i nostri comportamenti abituali: per esempio uscire a far la spesa al mattino presto piuttosto che in tarda mattinata, andare in ferie in settembre piuttosto che in luglio, non in alta montagna e possibilmente verso nord piuttosto che verso sud…
2) modificare, per quello che è possibile, l’ambiente circostante: ad esempio mettere una bella tettoia in giardino, un ombrellone in spiaggia (non dimenticando però le superfici riflettenti di cui abbiamo parlato prima), una tendina in ufficio, i vetri scuri in automobile (può bastare applicare sui vetri laterali una pellicola di plastica trasparente che da sola blocca una buona parte degli UV);
3) indossare vestiti adeguati: preferire il cotone o la lana ai tessuti sintetici, tessuti colorati piuttosto che bianchi, possibilmente a trama fitta; riscoprire il fascino del cappellino, magari a falda larga e – perché no? – dei guanti bianchi e dell’ombrellino della nonna!
4) protezione solare adeguata (di cui parleremo in dettaglio più avanti);
5) l’uso di autoabbronzanti: non quelli che richiedono una successiva esposizione al sole! Vanno bene invece quelli a base di diidrossiacetone; il loro uso conferisce alla pelle una colorazione più scura (per quanto leggermente tendente all’arancione e qualche volta non perfettamente omogenea) che è ritenuta più gradevole di un candido pallore (opinabile, comunque, che una pelle bianca non sia di per sé bella) e che probabilmente conferisce un certo grado di protezione contro gli ultravioletti (soprattutto quelli a maggior lunghezza d’onda che sono i più difficili da bloccare);
6) l’assunzione di farmaci ad azione protettiva: l’idrossiclorochina ha un effetto protettivo nei confronti del comune eritema solare e quando possibile conviene usarla durante il periodo estivo, anche se non tutti sono concordi sulla reale efficacia nelle manifestazioni di fotosensibilità in corso di LES. Il beta-carotene e gli anti-ossidanti, di cui tanto si sente parlare, non hanno invece alcuna importanza riconosciuta nella protezione dei pazienti fotosensibili.
Ci sono prodotti ad uso esterno (crema, latte, gel) che applicati sulla cute la proteggono dai raggi UV. Questi contengono sostanze chimiche diverse in grado di assorbire i raggi ultravioletti dissipandone l’energia in maniera innocua per la pelle (filtri chimici) o in grado di rifletterli o disperderli nell’ambiente circostante (schermi fisici). Ognuna di queste sostanze ha proprie caratteristiche di assorbimento o di riflessione
per cui dalla loro combinazione si ottengono prodotti a maggiore efficacia protettiva. Quali caratteristiche deve avere un prodotto per la protezione solare per il paziente affetto da LES?
La cosa più importante è la capacità di bloccare tutti i raggi ultravioletti, sia gli UVA che gli UVB. Purtroppo il “fattore di protezione” comunemente indicato sulle confezioni si riferisce solo alla capacità di proteggere dagli UVB (che sono quelli maggiormente in grado di causare scottature solari) e non tiene affatto in considerazione gli UVA (che però sono anch’essi potenzialmente causa di fotosensibilità). Alcuni prodotti più moderni, invece, recano oltre al classico “fattore di protezione”, anche un indice di protezione dagli UVA. Tuttavia non esiste ancora una metodica standardizzata per la determinazione del “fattore di protezione per gli UVA” per cui non è possibile comparare prodotti di marche diverse sulla base del semplice confronto dei
numeri. Un’ultima caratteristica importante da valutare è la “capacità di restare sulla pelle” (sostantività) del prodotto; infatti anche il più completo schermo solare vale poco se poi viene facilmente rimosso col sudore o con l’acqua. Per questo è opportuno verificare anche che sia specificata la capacità di resistere all’acqua: i prodotti waterproof sono migliori di quelli water-resistant per la loro maggiore sostantività. Ricordiamo infine che i prodotti per la protezione solare vanno riapplicati spesso; cautelativamente potrei suggerire di riapplicarli anche ogni ora in caso di permanenza all’aperto. Il corretto utilizzo di queste informazioni potrà certamente permettere ai pazienti fotosensibili di ritagliarsi un loro ambito di “libertà”, anche a fronte della fatidica raccomandazione “eviti l’esposizione al sole”...